Di necessità virtù

Pochi lo sanno, ma sulle tavole della legge scolpite da Mosè sul Sinai i comandamenti non sono 10, sono 11. E l’undicesimo dice: tu non farai da tutor a tuo figlio per i compiti.

Questo perché quando c’è di mezzo una relazione così stretta ma anche così complessa come quella tra genitrice e figli3, il legame può essere più un ostacolo che un vantaggio, anzi molto spesso diventa causa di tensioni e di sviluppo di ostacoli e problemi che altrimenti, con un tutor estraneo alla famiglia, non si presenterebbero proprio. Niente di strano o di patologico, però.
E’ proprio normale che tuo figlio con te si comporti in un modo diverso che con un estraneo, reagisca in modo diverso, sia in qualche modo toccato in modo diverso dalle tue uscite o osservazioni. E viceversa, se tu dovessi aiutare nei compiti il figlio del vicino potrebbe andare bene o male, ma alla fine tu torneresti a casa sapendo che hai fatto del tuo meglio e se non ha funzionato bene comunque sopravvivi e hai un sacco di altre cose a cui pensare e da fare. Se invece è con tuo figlio che senti di fallire, magari più volte, lo psicodramma è servito. Per tutta la famiglia, spesso. Insomma, è cosa buona e giusta trovare un tutor che si occupi di vostrə figliə per i compiti, qualcuno che si occupi eventualmente del suo potenziamento delle abilità scolastiche, mentre voi dalle retrovie osservate con in mano un Aperol Spritz o un Martini ben secco e senza oliva, senza immischiarvi.

Cos’è che ha fatto di me un’apostata, una che invece si immischia eccome e finisce per far da tutor e insegnante al proprio figlio? La dura realtà. E la realtà è che i miei figli hanno un profilo estremamente particolare, cioè vivono sull’intersezione di più condizioni di “eccezionalità”, intesa nel senso di qualcosa che si presenta già di per sé poco frequentemente, figurati più insieme in una sola persona.

In particolare il piccoletto, l’Aspiebaby del mio cuor, è autistico con il pacchetto completo dei DSA, APC, con ADHD a prevalenza di disattenzione, e transgender non binary. E’ un mix che farebbe tremare i polsi a chiunque, perché mentre è relativamente facile trovare professionisti che siano esperti in autismo, o in DSA, o in APC, o magari in una combinazione di due cose, trovarne uno che ci capisca di autismo, DSA, ADHD, APC e identità di genere e loro possibili sinergie nello stesso individuo è, credetemi, eccezionale quanto trovare l’individuo suddetto. Abbiamo provato più volte e fallito altrettante, l’Aspiebaby a scuola faceva molto poco, e intanto l’orologio didattico che scandisce il passaggio degli anni scolastici ticchettava sempre più forte nella mia testa.

Alla fine ho fatto quello che ho fatto per il fratello prima di ləi: mi sono rimessa a studiare. Per l’Asperboy studiavo autismo, per l’Aspiebaby mi son messa a studiare DSA e didattica inclusiva. Perché tanto di autismo ci capivo già, di APC pure, di identità di genere i miei figli mi fanno da anni un corso full immersion, insomma alla fine ho capito che se non esisteva là fuori… dovevo diventare io questa figura mitologica di one(wo)man band, questa arlecchina con un abito di pezze di vari colori, non ultima la pezza della determinazione che ti dà essere, come madre, decisamente una parte in causa. Ho mollato l’hobby dell’artigianato tessile e mi sono buttata a far altro.

La grande fortuna è stata che mi è piaciuto, ho trovato la materia congeniale, interessante, ricchissima di spunti, insomma ho scoperto che nell’argomento didattica innovativa e inclusiva io ci sguazzo come un paperotto. Quindi è diventato meno faticoso studiarla e applicarla, anzi ormai che io abbia un figlio DSA è diventato quasi ininfluente, vado avanti anche e soprattutto per interesse per questo campo. Lo scoglio più grande rimane il fatto che siamo madre e figliə e quindi non è una relazione neutra, che parte da zero, tutt’altro. Potenzialmente, poteva essere un massacro.

Qual è il segreto che mi permette di essere ancora viva e psicologicamente ancora intera? Intanto, la cura della relazione (grazie per la dritta, corso sul blended learning). Cioè: ho capito che se volevo fare da tutor a miə figliə senza che questo rovinasse la nostra relazione, dovevo avere una cura estrema proprio della relazione tra di noi. Prima durante e dopo, in ogni luogo e in ogni lago. Quindi le nostre sessioni di studio sono precedute, intervallate e magari seguite da momenti di relax, di chiacchiere, di spippolamenti sul web per cercare cose interessanti, uscite, tè con biscottini. No pressure. Potremmo dire che gli fornisco un appetitoso sandwich: due strati di morbido pane di accoglienza, giochi e attività più interessanti per lui, spalmati di chiacchiere rilassate, e in mezzo gli rifilo il ripieno di contenuti didattici. Così, manda giù le cose più facilmente. E poi mi sono ritagliata più spazi per fare cose insieme, il famoso quality time. Così è più difficile che mi identifichi come la signorina Rottermaier della situazione, sono sempre e soprattutto la su’ mamma.

Oltre a questo, sto ristrutturando le mie aspettative, non solo nei suoi confronti, ma anche nei miei. Ho capito che misuravo le sue prestazioni in termini di tempo e produzione a fronte di uno standard teorico, il famoso “bambino normale” che esiste solo nei libri e nei sogni di pediatri e insegnanti. I bambini qua fuori nel mondo reale sono tutti diversi. Soprattutto, di ogni risultato e situazione cerco di vedere la direzione: se cioè stiamo andando verso un miglioramento, anche piccolo. Se il senso è quello della crescita, allora va bene. Non guardo dove sono rispetto a un immaginario traguardo, guardo dove sono rispetto al punto di partenza. E poi reagisco in modo diverso al fallimento, al mio soprattutto. Il mio professore preferito una volta ci disse: l’unità di misura dell’intelligenza è l’elastico. E quindi cerco di essere elastica e flessibile: se una strategia non funziona non ne faccio un dramma, ne funzionerà un’altra magari. Non mi fossilizzo, cambio, provo altre strade e approcci. Lui sente che sono più tranquilla, non si sente in colpa perché pensa di deludermi o di darmi un dispiacere, e insieme lavoriamo molto meglio.

E poi c’è tutto il vasto mare delle possibilità di una didattica non imbrigliata dai limiti della lezione scolastica: possiamo usare modellini scientifici o costruirceli proprio, fare quiz didattici, costruire lapbook, guardare video, film, andare a vedere posti, cucinare piatti esotici, surfare il web. Possiamo divertirci, non solo studiare, come quando abbiamo fatto la torta a forma di cellula eucariota della foto. In questo mi è stato molto d’aiuto il grande mondo della didattica online anglosassone, dove si trova veramente di tutto, e l’e-commerce globale, dove se scavi trovi miniere di materiali didattici abbordabili.

Che poi alla fine questa creatura mitologica di cui dicevo, con il corpo dell’esperta d’autismo e la testa da esperta di DSA, le zampe da tutor ADHD, le orecchie APC e la coda queer alla fine l’ho pure trovata! Quindi adesso l’Aspiebaby ha anche una tutor che lo capisce perfettamente e con cui lavorare, e a cui fornisco volentieri i materiali didattici e ci pensi lei, che io vado appunto a farmi quel famoso Aperol Spritz. Non faccio più tutto da sola. Enorme sollievo.

E il ragazzinə, a quanto pare, fa progressi, bello de mamma sua.

Tutto bello? Ni. Sono una strana figura ibrida: per (quasi) tutti io sono sempre la madre, e basta. Al ruolo non si sfugge, ho imparato. Puoi pure avecce tre master sulla questione, ho scoperto*, ma nei contesti in cui è coinvolto tuo figlio sempre “la madre” resti, a quanto pare, una che non è né una una professionista del DSA o dell’autismo, né un’insegnante MIUR, e che quindi sotto sotto, glie lo senti pensare, non si dovrebbe immischiare perché non può capire. Io poi sui moduli che riguardano mio figlio alla voce professione c’ho “casalinga”, figuriamoci, leggono quello e mi etichettano istantaneamente (come se casalinga equivalesse a incapace di far altro). A volte becco pure il paternalista di turno che mi rovina l’umore per vari giorni.

Ma sapete come la vedo? La vedo che se la scuola italiana e il servizio sanitario nazionale avessero fatto il loro dovere con i miei figli, dando loro fin dall’inizio l’assistenza e la didattica di cui avevano bisogno, non avrei dovuto immischiarmi. Invece ci hanno clamorosamente lasciato a piedi. Hanno lasciato a piedi noi e tante altre famiglie, e quindi a noi genitori è toccato diventare esperti in cose che non avremmo mai immaginato. Sapete quanti genitori come me ci sono nel giro dell’autismo e della disabilità in genere, madri soprattutto, che oltre a tutto il carico normale della loro vita studiano e si rimboccano le maniche per supplire alle carenze del sistema? Per ritrovarsi poi con il sistema che je mette i paletti perché ‘nziamai ammettere che sono competenti? Decisamente troppi.
Quindi mi prenderò le occhiatacce virtuali o meno di chi pensa che dovrei volare basso e lasciar fare ai professionisti, e continuerò a fare quello che faccio. Perché lo so fare, e perché l’Aspiebaby cresce, quell’orologio ticchetta e io non ho tempo da perdere con le falle del sistema.

*  e ce li ho davvero eh

Mo’ me lo segno

Quattordici anni fa ho scritto questo, su un forum per mamme che frequentavo all’epoca, e negli anni questa consapevolezza ha fatto un po’ da bussola a tante delle scelte che ho fatto, che ho dovuto fare, per il futuro dei miei ragazzi (ed anche per il mio). E’ vero, ci sono cose per cui le persone autistiche sono atipiche. Ma ci sono anche tante cose per cui siamo tutti uguali, noi umani. E una è questa: non impari quando soffri, non impari quando stai male, non cambi davvero sotto pressione. Dovremmo ricordarcelo più spesso, per i nostri figli, e per noi.

“Circa sei anni fa ero sdraiata sul pavimento di una palestra, su un comodo materassino di gommapiuma, ed attorno a me i miei compagni di corso. Un istruttore Feldenkrais con voce tranquilla ci stava dando istruzioni semplici per farci esplorare gentilmente la nostra organizzazione motoria. Ci raccomandava ogni poco di fare movimenti piccoli, comodi, di non forzare, di non cercare la performance o chissà ché, che l’importante era esplorare questo movimento, l’ampiezza era ininfluente ora. Ci ricordava di respirare, di non contrarre muscoli inutili, di prenderci delle pause quando ne avevamo bisogno. Ci consigliava di ascoltarci, ascoltare i cambiamenti anche minimi nel corpo, i suoi segnali. Ricordo che era una serie di esplorazioni motorie della mobilità della gabbia toracica, e ad un certo punto lì, sdraiata, con questo senso di grande benessere fisico ma anche psichico, questa nuova ampiezza di respiro raramente sperimentata, ecco lì un pensiero se è fatto largo in modo imperioso:

MA PERCHE’ CHEZZ DOVREI SPUTARE SANGUE SUDORE E LACRIME SU UN CAVALLETTO BIONERGETICO?? Quando la stessa apertura la posso ottenere in modo comodo, piacevole, gentile??

Ecco, quella è stato un balzo evolutivo notevole per me 

Passo indietro: io sono una fisioterapista. Quando facevo tirocini e poi lavoravo in reparto, ricordo di aver visto ad esempio ginocchia anchilosate piegate a forza, mentre il paziente si sforzava di non urlare. E comunque l’idea che un po’ di dolore era necessario ed inevitabile. Io fin da quei giorni lì non ci ho mai creduto. Oggi ci credo ancora meno: ho studiato e lavorato con la rieducazione posturale, con la riabilitazione neurologica, con lo shiatsu, alla fine sono approdata al Feldenkrais. E ne sono sempre più convinta: si acchiappano più mosche col miele che con l’aceto, come diceva la mi’ nonna. Il dolore è solo dannoso.

Penso che siamo un po’ vittime di questa idea che le cose importanti si imparano con lo sforzo, magari con il dolore, attraverso la difficoltà.
Io con il Feldenkrais ho imparato motoriamente e non solo più che con qualsiasi altra cosa. Quando per trent’anni della tua vita pensi che tu sei quella che non riesce a sedersi tra i talloni, e manco con tutto lo stretching di questo mondo (e facendoti pure un po’ male) ci sei riuscita, e poi in due giorni di lezioni Feldenkrais in cui apparentemente fai pochissimo e bella comoda ti ritrovi all’improvviso seduta tra i tuoi talloni, easy and soft…. ecco, lì è proprio un’epifania, a sudden revelation. Lì capisci che la possibilità di cambiare esiste, e che il cambiamento in meglio puo’ avvenire senza sforzo, senza dolore… che la vera intelligenza è quella. Che si imparano cose nuove, e che le cose nuove il nostro cervello le impara meglio quando è rilassato e si diverte. Mai riso tanto come alle classi di Feldenkrais, una volta mi sono ritrovata a fare una specie di complesso giro su me stessa stando sdraiata sulla pancia ed era così sorprendente che giravo e ridevo, giravo e ridevo come una bimba.

Ho pensato che in vita mia ho imparato tanto da tante cose, ed oggi il mio modo di essere madre e concepire l’educazione deve tanto al Feldenkrais, come pure a tutte le persone pazienti e gentili che ho incontrato, prime tra tutte mia madre e la tata di Sara.

In questo periodo mi sento bene. Ho rispolverato il Feldenkrais, ho deciso che per me andare in palestra a famme male con step pump e co. è una str0nzata e quindi faccio danza orientale, che mi diverte, e Pilates, che è intenso ma non mi fa spolmonare, ho deciso che io odio correre e quindi semmai cammino, come attività cardiovascolare va bene lo stesso. La sera invece di vedere telefilm violenti mi faccio un po’ di Yoga Nidra. Ho deciso di non farmi male, di essere gentile con me stessa. Funziona.

Era un pezzo che volevo scriverlo, se siete arrivate fin qui grazie, e complimenti 

Neeta

p.s. http://www.feldenkrais.it per chi si chiedesse cosa chezz è ‘sto Feldenkrais”