L’arte di travisare

Oggi una mia amica ha portato alla mia attenzione un “interessante” articolo sull’autismo, questo. Il titolo, tradotto letteralmente, suona: l’autismo è così sovra-diagnosticato che il termine sta diventando privo di significato.

L’articolo fin dal titolo presenta quindi una tesi piuttosto provocatoria: le differenze tra persone diagnosticate nello spettro e persone non diagnosticate nello spettro stanno diminuendo, uno studio scientifico ci avverte che se si continua così potrebbero sparire nel 2029, e insomma che le diagnosi di autismo starebbero diventando “meaningless”, appunto, prive di significato. BOOOOOM.

Quando avete ripreso fiato, ne parliamo.

Ora, questo studio di cui si parla qualcuno se l’è andato a leggere? Io sì. E sorpresa sorpresa*, non dice affatto cose del genere.
*no, non è vero, non è una sorpresa, non succede mai che un titolo acchiappagonzi e un articolo pseudoscientifico riportino veramente quello che dice lo studio citato, ma vabbe’.

L’articolo che ho linkato è su una rivista sudafricana che non conosco, che a sua volta cita un articolo del Daily Telegraph, che però è a pagamento. Il testo dello studio invece non è a pagamento, e lo trovate qui: https://jamanetwork.com/journals/jamapsychiatry/fullarticle/2747847

Riassumendo: viene pubblicato uno studio, anzi una metanalisi, che ci dice che rispetto al passato è cambiato l’approccio alla questione autismo, e la popolazione denominata “autistici” è cambiata da una piuttosto ristretta e individuata a una più allargata e inclusiva. E che questo, detta molto alla buona, siccome fa diminuire le correlazioni rilevate tra costrutti che costituiscono i tratti autistici e quindi l’oggetto di studio e di intervento, potrebbe diminuire la capacità di costruire modelli per cercare di spiegare le cause dell’autismo. Stop.

Dice che la diagnosi di autismo sta diventando “priva di significato”? NO
Dice che nel 2029 non si riuscirà a distinguere tra autistici e non autistici? NO

E allora chi l’ha detto? L’ha detto uno di quelli che ha firmato lo studio, il dr. Mottron, canadese, nel corso di interviste. Cioè: lo studio non lo dice, non si occupa manco della questione, e Mottron in un’intervista ha detto le famose frasi di cui sopra: di sto passo entro il 2029 etc etc. E’ la posizione personale di Mottron, espressa anche qui, perfettamente legittima quando definiamo che è la sua idea, e non è proprio evidente dallo studio, che questo tipo di proiezioni non le fa, perché si occupa di altro. E cioè dell’utilità o meno dell’avere una popolazione molto eterogenea di autistici come soggetto di studio. Perché appunto, questo fa aumentare la difficoltà di trovare correlazioni di tratti e costrutti, che sono un po’ la traccia di briciole di pane che, collegata ad altri studi di carattere genetico magari, dovrebbe permettere di capirci sempre di più e magari trovare anche il bandolo di qualche matassa. Siamo a un punto in cui la clinica e la ricerca perseguono due strade che sembrerebbero, potenzialmente, entrare in conflitto.

In altre parole: l’atteggiamento dei clinici, cioè quelli che diagnosticano l’autismo, si è modificato negli ultimi 50 anni, e comunque è perché è rivolto a cercare di aiutare le persone, in generale. E’ per questo che hanno modificato nel tempo non tanto i criteri diagnostici, quanto l’approccio alla diagnosi, e all’autismo come spettro.
L’atteggiamento dei ricercatori invece è di quelli che vogliono capicce qualcosa, nei meccanismi dell’autismo e delle sue cause, e da quando tutto è stato inglobato in un unico continuum con persone che hanno un funzionamento molto differente, a quanto pare, incontrano più difficoltà. Preferirebbero lavorare con una popolazione, o sottopopolazioni, più omogenee, definite, gli permetterebbe di trovare correlazioni, collegamenti più evidenti per costruirsi un quadro sempre più chiaro. E’ un po’ come se fino a ieri gli studiosi avessero da esaminare un boschetto di sole conifere, per esempio, per capire come funzionava quell’ecosistema, e oggi invece si ritrovassero in una foresta tropicale piena di alberi e piante di tutte le altezze, colori e specie diverse. A un certo punto qualcuno come Mottron sbotta: eh ma che cavolo, la piantate di metterci ancora alberi qui, che di questo passo noi non ci si capisce più niente!?
Un po’ c’è da capirlo eh.

P.s. Come ho scritto oggi in un altro post, sono davvero molto stanca. E’ stato faticoso anche scaricarsi l’articolo, le interviste etc. e leggerseli. So che probabilmente ci sarebbe altro da dire, ma io mi fermo qui. Spero che il post sia un contributo utile per capire meglio le motivazioni degli uni e degli altri, clinici e ricercatori, e anche per far capire che è *inopportuno* prendere quello che dice la scienza e brandirlo come una clava ideologica per i propri personali fini (oltretutto travisando e senza magari capirne una mazza di questioni scientifiche, ma vabbe’). Non è stato fatto per quello.

Live to fight another day

Non so se avete presente quelle scene nei film in cui improvvisamente le cose iniziano ad andare al rallentatore. Fino a quel momento tutto è stato frenetico, magari, e poi il regista decide di mettere in evidenza un certo momento facendovelo vedere, appunto, come un tempo dilatato, dove le cose sembrano quasi sospese, o comunque vanno lentissime.

Ecco, la stanchezza arriva proprio così, per me: al rallentatore. Sono in grado di fare sforzi anche piuttosto prolungati (per i miei standard), in pratica sto su a energia nervosa, e se dopo la mia morte volessi donare il mio corpo alla scienza probabilmente troverebbero le mie surrenali ridotte a prugne secche, a furia di spremersi per tenermi in piedi. A un certo punto però le cose da fare finiscono, almeno temporaneamente, l’emergenza rientra, e pure le surrenali mi dicono vabbe’ sorella, noi abbiamo dato, mo’ so’ cazzi tua, ed io comincio ad afflosciarmi. Ma non di botto, appunto, al rallentatore. E’ come se ti passasse sopra un TIR, ma con calma eh, non di corsa, hai tutto il tempo di guardarti mentre vai inesorabilmente a faccia in avanti. Come essere Rocky che prende sganassoni ma al rallenty, e stavolta FA MALE!

Sono reduce da una settimana campale, almeno per me. E quella prima non era stata molto diversa. Figli, casa, viaggi, corsi, altri corsi, altri viaggi, non vi sto ad annoiare con il racconto dettagliato. La cosa interessante però è appunto come arriva la stanchezza, dopo. Non so se sia un tratto autistico, questo, ma tendo a pensare di sì, e che abbia a che fare con la difficoltà di percezione degli stati fisici, ed emotivi, con la lentezza con cui arrivano le percezioni e le elaborazioni di pensieri e reazioni di tipo fisico ed emotivo per molte persone autistiche. Come ho raccontato altre volte, il problema spesso non è “fare le cose” per un autistico, soprattutto se motivato da un interesse un autistico può fare molte cose a livelli di energia, coinvolgimento ed efficienza molto alti, il problema è pagarne il prezzo dopo. Quando arrivano tutto il sovraccarico e la fatica ignorata.

Il primo giorno di “riposo” in sostanza non riposo un cavolo, sono ancora su come una falena dopata per l’onda lunga di quello che ho fatto nei giorni precedenti. La testa non si ferma manco un secondo, continuo a pensare a tantissime cose da fare, progetti per il futuro, cose rimaste indietro. E’ un po’ come essere un quattrocentista che arriva al traguardo, ma non è che si ferma subito, ha bisogno di spazio per rallentare e frenare.

Il secondo giorno inizia ad arrivare la stanchezza fisica, il dolore (che c’era anche prima ma non lo sentivo), il senso di confusione, ma ancora non siamo al peggio.

Il terzo giorno, invece di risorgere, vado ancora più sotto e arriva la stanchezza emotiva. Ora, questa è una cosa un po’ strana, e ci ho messo un po’ per capirla. In sostanza, la mia mente diventa meno resistente a qualunque “attacco” esterno o anche interno. E’ come se l’armatura protettiva che ho diventasse più porosa, molto meno capace di proteggermi da stimoli e pensieri intrusivi. E quindi appunto, arriva la labilità emotiva, arrivano i pensieri intrusivi, arriva il senso di tristezza, di ansia. Non c’è un motivo particolare, a parte la stanchezza. Ormai lo so e quindi lo sopporto un po’ meglio, ma forse è il momento meno facile, il momento in cui penso machiccazz me l’ha fatto (ri)fare di ridurmi di nuovo così…

Il quarto giorno, cioè oggi, arriva l’uno-due, l’uppercut finale. Non sto in piedi, crampi all’addome, mi fa male un po’ tutto, letteralmente, fatico a pensare, potrei piangere per come mi sento triste. Eppure qualcosa nella mia testa continua a cercare di girare testardamente come un criceto imbecille sulla ruota, e devo fare uno sforzo per proteggermi da me stessa, ascoltare quello che il corpo e la mente cercano di dirmi, e impormi di mettermi a letto, sospendere qualunque attività, qualunque lettura impegnativa, cancellare impegni non fondamentali, delegare a mio marito la gestione in toto dei ragazzi cani casa, tutto il cucuzzaro. Perché non posso fare altro, perché solo un idiota cercherebbe di continuare a fare altro. L’unica è mettere a tacere i sensi di colpa il più possibile (pare facile), riposare, la mente come il corpo, and live to fight another day.

Criterio F

Ho fatto voto di non infilamme mai più in una polemica di quelle eterne che sostanzialmente non servono a niente, perché poi ognuno resta della sua opinione, che scoppiano periodicamente nel “giro” dell’autismo tra attivisti della self advocacy e genitori di ragazzini autistici. Per cui se ne vedo una chiudo i social e vado a fare altro. Però mi dispiace sapere che continuano ad esserci queste discussioni.

Perché fidatevi, alla fine sono discussioni che fanno più danno che altro, soprattutto danni collaterali, cioè un danno che si espande attorno, avvelena l’ambiente, e colpisce anche chi magari non c’entra niente, non c’era e ha posizioni diverse, ma ormai l’ambiente si sta polarizzando e può capitarti di essere preso per quello che non sei. E’ capitato a persone che si spendono per fare formazione ed aiutare le famiglie di autistici, e poi vengono trattate come se fossero tutt’altro, un nemico, solo perché autistici di liv.1. WTF??

Ora, il problema visto dal mio angolino nasce perché mancano in generale i pre-requisiti per affrontare il discorso. E i prerequisiti sono capire almeno un po’ in cosa consiste l’autismo, proprio a livello medico, clinico, e poi come ragionano i clinici.
Lo so che la self advocacy vuole andare oltre lo sguardo medico sull’autismo, ed è assolutamente legittimo, ma se vuole farlo comunque deve prima capire 1) da dove nasce lo sguardo medico 2) che c’è una fetta di autismo (e di autistici) che ricade per forza in campo di interesse medico, perché il livello di compromissione è tale da richiedere alto livello di supporto. E quello passa quasi solo per il campo medico, almeno attualmente.
E lo so che per molte famiglie la questione dei criteri diagnostici clinici è fondamentale, ma allora bisogna anche capire cos’è un criterio diagnostico e a cosa serve come strumento nelle mani di un clinico, non come clava da brandire in una discussione. Perché non è stato fatto per quello, e sui social tendiamo a dimenticarcelo.

Una parte del problema è che essere autistici significa essere umani (bella scoperta). Sì insomma, come fa notare molto correttamente Barry Prizant, non esiste niente che un autistico faccia… che non fa anche un non autistico. Nominate un comportamento, lo stimming per esempio, e vedrete che anche i neurotipici fanno stimming. Nominate il meltdown, e anche i neurotipici possono avere momenti in cui je parte la brocca con tutto il cucuzzaro. Nominate la rigidità cognitiva e vi presenterò neurotipici duri come le pine. La differenza sta nell’intensità e frequenza dei comportamenti, oltre al fatto che si presentano insieme in un certo assortimento specifico, e impattano sul funzionamento. Questo è fondamentale da tenere sempre in mente. Però in teoria si potrebbe anche spostare questa lancetta che segna “dove comincia l’autismo” su e giù come fa comodo alla propria visione, e in questo modo includere o escludere delle persone. Non è una questione da poco, tra l’altro, significa dare strumenti e tutele o toglierli, a volte a decine di migliaia di persone in una botta sola.

E qui arriva un punto importante, secondo me: i clinici nel tempo modificano i criteri diagnostici per includere le persone che hanno bisogno di supporto, non per gioco. Cioè se si sono allargati i criteri diagnostici per includere persone con un funzionamento autistico che in passato sarebbero stati considerati altro (schizofrenici, schizotipici, depressi etc.) è perché si è ritenuto, e secondo me a ragione, che quelle persone non solo avessero un funzionamento autistico, ma avessero per questo anche delle problematiche tali da richiedere supporto. I medici studiano per aiutare le persone, alla fin fine, non per tracciare confini senza senso. E non per accontentare questa o quella fazione di gente variamente incazzata là fuori.

Questo allargamento ha creato un grosso problema di inclusione, perché la comunità delle famiglie di autistici si è trovata davanti un gran numero di individui con una diagnosi di autismo, che magari prima avevano pure una diagnosi ma non di “autismo” bensì di “spettro autistico” (DSM IV-R), e che non corrispondeva all’idea a cui erano abituati di autismo. Persone con un livello di autonomia maggiore rispetto ai loro figli e figlie. Da lì a dire “ma questi non sono veri autistici” il passo è stato breve.

E arriviamo quindi al problema degli autistici “che non sembrano autistici”, insomma che hanno un funzionamento autistico “senza compromissioni”. Pure su questo temine, senza compromissioni, ci sono equivoci notevoli.
Diciamo subito che senza compromissioni solitamente significa: senza compromissione del cognitivo, cioè cognitivo nella norma, e senza compromissioni del linguaggio. Che sono le due grandi aree dove invece le persone autistiche di livello 2 e 3 (e anche alcune di liv. 1 direi) hanno invece problemi associati. Ma questo non significa senza compromissioni del tutto. Se hai una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, hai delle compromissioni *dal punto di vista della scienza medica* (e neurotipica), per definizione. Compromissioni sul versante della reciprocità sociale, delle condotte ripetitive etc. Criteri A e B insomma. E questo impatta sulla tua vita in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti, criterio D. Ed è così da quando sei piccolo, criterio C.

E’ a questo punto che purtroppo viene messo a punto da alcuni un definitivo, dirimente criterio diagnostico per l’autismo. Un criterio diagnostico che batte tutti gli altri. Il criterio F, quindi, che si riassume in “not like my child”.

In sostanza, capitano queste situazioni: potete pure avere tutti i primi cinque criteri diagnostici positivi, ma se non soddisfate il criterio F, se non siete “come mio figlio”, intendendo il figlio dell’interlocutore di turno, con tutta una serie di compromissioni notevoli, non siete veramente autistici. E quindi non avete diritto a diagnosi e supporto. Criterio F, come fanculo, dove potete andarvene con tutti i vostri problemi insomma. In questi casi puoi provare a spiegarglielo in tutti i modi, comunque restano su quella posizione anche contro i pareri di professionisti esperti e tutte le possibili motivazioni e dissertazioni con tanto di studi scientifici che puoi produrre.
Perché in realtà lo sanno, e io lo so che loro lo sanno, quindi è inutile che glie lo spieghi e rispieghi (ed ecco perché non mi ci metto manco più ormai). Non si impuntano perché non lo sanno, si impuntano perché lo sanno e li fa incazzare da morire ‘sta cosa. Che qualcuno osi essere, e dire di essere autistico, senza essere “like my child”. Vabbe’.

Poi esiste il famoso BAP, o Broader Autistic Phenotype, cioè fenotipo autistico allargato. E’ una definizione creata per quelle situazioni in cui siamo fuori dai criteri per una diagnosi di disturbo come numero dei tratti o come intensità del disturbo, ma comunque ci sono tratti autistici presenti in quella persona. Viene usato per esempio per definire la condizione di molti genitori di autistici, che pur senza essere proprio autistici appunto presentano diversi tratti. Si chiamano tratti sub-diagnostici, non sub-clinici, attenzione. La differenza è questa: clinico significa che si vede, che si presenta, quindi sub-clinico significa che non si vede (ma non significa manco questo “non c’è”, in senso medico), questi invece sono tratti che si vedono, ci sono e si vedono insomma. Sono sub-diagnostici nel senso che non sono sufficienti per determinare la diagnosi. Non significa che non ci sono, e non significa che quindi non hanno potenzialmente nessuna rilevanza o impatto sulla vita. Potrebbero averne, anche se non inquadrati in una diagnosi.

Adesso, se qualcuno ha letto altri post di questo blog, saprà quanto mi stanno sulle palle le diagnosi di comodo, per coprire il fatto che uno sia autistico con qualcosa di più socialmente presentabile. Mi stanno pure sulle palle quelle situazioni in cui si vorrebbe far passare sotto l’etichetta di autismo anche altre cose, come per esempio disturbi di personalità che coesistono con l’autismo ma non sono autismo, e se l’autismo “non si cura!” lo posso accettare, i disturbi di personalità fareste bene a curarveli invece. Quindi, non penso di essere una che cede alla tentazione della “diagnosi di comodo”, né in un senso né nell’altro.

Ora, la mia domanda è: ma voi con che criterio decidete che se una persona con funzionamento autistico o profilo autistico non raggiunge il cut off di compromissione per una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, allora quella persona non ha diritto di sapere e di dire che ha un funzionamento autistico? Di nuovo, come si ragiona in clinica? Si ragiona che se una persona non arriva al cut off per la diagnosi di diabete, ma comunque ha una glicemia alta, non è che tutto bene! non c’hai niente! No, c’hai una situazione che comunque richiede attenzione, probabilmente hai già un’alterata tolleranza al glucosio, anche se non ti posso rilasciare una diagnosi di diabete e quindi non hai accesso a tutta una serie di tutele/presidi. Te lo dice, il clinico, che stai messo così, e cosa devi fare.
In neuropsichiatria infantile, quando vedi un bambino che ha problemi di prerequisiti per la letto-scrittura, e quindi è a rischio di dislessia e co., mica aspetti la seconda elementare per fargli la diagnosi e poi eventuale riabilitazione, mezzi compensativi dispensativi etc, inizi a lavorarci subito se è il caso, o comunque lo tieni sotto controllo, lo rivedi per capire come sta andando. Ai genitori dici che c’è qualcosa.
Io ho una malattia che ha un grading da 1 a 10, a 10 sei allettata, alimentata con sondino di solito e dipendi in tutto e per tutto dagli altri. Io faccio fatica, tanta, e a volte ne parlo anche qui sul blog, ma ho (ancora) un discreto grado di autonomia. Chi mi vede da fuori, quando esco da casa, non pensa che io sia malata. Ma all’interno della comunità dei malati di ME/CFS come me *nessuno* si permette di dirmi che io non c’ho un tubo, sanno benissimo che ho solo un grado diverso di compromissione. E sanno pure quanto sia difficile riuscire a farsi diagnosticare da gente che ha studiato medicina e pure quando hai compromissioni elevatissime, figurati farsi prendere sul serio da gente che non è medico e ti vede che stai ancora in piedi.
Riassumendo: la condizione di “non ci sono tutti i criteri per una diagnosi” non significa affatto “VA TUTTO BENE!”, nel pensiero medico. E dire che una persona ha un livello di compromissione basso non significa che potete mandarla affanculo perché ci sono cose più gravi. Nella medicina fatta bene per fortuna non si ragiona così.

Insomma, se una persona ha una diagnosi di disturbo dello spettro autistico di liv. 1 per quanto mi riguarda – e per quanto riguarda la scienza medica – quella persona è autistica e basta, non c’è manco da discuterne. Stacce.
Ma se vi arriva una persona e dice che ha un funzionamento autistico rilevato da un clinico, e si autodefinisce autistica, e ha dei problemi che a voi sembrano poca roba, potete avere l’idea che ve pare nella vostra testa ma comunque, secondo me, è meglio se trattate quella persona con il rispetto dovuto a un umano come voi. Non avrà le compromissioni che ha un autistico di livello 3, di sicuro, forse manco quelle di un autistico di liv. 1, vai a sapere, ma questo non significa che non c’abbia proprio niente che non funziona nella sua vita, e ci sono ottime probabilità che sia proprio il suo funzionamento autistico a determinarlo, visto che gioca fuori casa, in una società cioè ad ampissima maggioranza neurotipica. A voi non sembrerà un disturbo sufficiente, magari nemmeno al clinico che ha certificato un funzionamento di tipo autistico, ma questo non significa zero problemi vai pure a fanculo. Non siamo qui, come esseri umani, per mandarci reciprocamente affanculo e chissenefrega di te. Teoricamente, ci vorrebbe un po’ più di empatia e solidarietà, da tutti i lati.

E quindi dall’altro lato se siete persone come me, con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico di liv.1, e soprattutto come me siete nella vostra capoccia e nella vostra vita da decenni e *sapete* come funzionate, quindi sapete di essere autistici pure se Tizio e Caio pensano di no perché non c’avete il criterio F, però rendetevi conto che nessuno di noi è misura del tutto, e di alcune cose si può parlare perché le si vive e le si è vissute, e di certe altre si può parlare se si sono osservate e studiate, e di altre ancora meglio ascoltare chi c’è dentro più di voi prima di parlare, che non si finisce mai di imparare. Nemmeno su sé stessi, figuriamoci sugli altri.

In sostanza, a me pare che in simili discussioni tanto attivisti quanto genitori finiscano per perdere di vista lo scopo di una diagnosi ma anche di una relazione clinica, chiamiamola così, dove non si diagnostica un disturbo ma un funzionamento: aiutare. Aiutare persone a capirsi, a funzionare meglio, ad avere se possibile una vita un po’ meglio di quella che è stata prima, perché di solito da uno specialista della salute mentale non ci vai se stai tanto bene. E aiutare le famiglie a capire meglio i propri ragazzi, e come fare ad aiutarli, quali strumenti mettere in campo per costruire le loro autonomie future. Possiamo non perderlo di vista?

Con le mutande difori

Le emozioni, nell’autismo, sono un campo piuttosto delicato. Terreno accidentato, a tratti oscuro. Soprattutto perché le persone autistiche, tendenzialmente, non ne vogliono parlare e/o non le fanno vedere. E si pensa che non le abbiano, ma no, le abbiamo come chiunque anche se in modo diverso da chiunque, probabilmente.

Una volta, parlando con la mia psicoterapista, le ho detto che le emozioni sono un po’ come la biancheria intima, per un’autistica come me: non è che vai in giro a farla vedere a tutti. Attenzione, non è che significa che non sono importanti, la biancheria intima è una parte importante e fondamentale dell’abbigliamento, però… è intima, appunto. I miei figli sono come me, se vuoi fargli un dispetto chiedigli di scrivere un tema su “come mi sento quando…”. Chiedimi qualcos’altro. L’autistico parlerebbe per ore e ore del suo interesse del momento, ma non delle sue emozioni. A volte mi pare che le persone là fuori funzionino un po’ al contrario, e insomma, non ci capiamo.

Le differenze potrebbero essere che gli autistici tendono ad essere amimici, buona parte della loro vita emotiva si svolge dentro la loro testa, ma non affiora facilmente alla superficie con espressioni o mimica corporea. Se mi guardate mentre guardo un film comico probabilmente mi vedrete estremamente seria e composta. E alla fine magari vi dirò: mi sono divertita tantissimo. E dirò sul serio eh.
L’altra differenza è che per le persone autistiche, lo sappiamo, percepire e comprendere appieno la propria emozione può non essere facile. Si tratta di alessitimia, cioè non avere facilmente le parole per le emozioni (attenzione, non è “non avere le emozioni, sono le etichette per definirle che mancano). Sappiamo che sta succedendo qualcosa, ma non sappiamo esattamente cosa. L’integrazione di quello che proviamo può richiedere tempo, l’emozione affiora più lentamente e richiede tempo per essere identificata. Il classico caso è quando qualcuno ci fa uno sgarbo, e non reagiamo subito, è come se arrivasse tutto al rallentatore. E non arriva tutto subito chiaramente, arriva nel tempo, come se una nebbia si diradasse gradualmente su quel che c’è.

Qual è il problema di questo processo? Il problema è che l’emozione ha uno scopo, proprio come la biancheria intima. La biancheria intima protegge parti più vulnerabili e le sostiene, e le emozioni hanno una loro utilità: ci fanno capire di cosa abbiamo bisogno. Questa è stata un’epifania quel giorno nello studio della mia psicoterapeuta, perché fino a quel momento ero piuttosto abituata ad avere emozioni, a parlarne razionalmente, a analizzarle se vogliamo, ma anche a non capire a che cavolo servissero, evolutivamente parlando. Ecco, servono per capire che bisogno abbiamo noi rispetto alla cosa che ci ha scatenato l’emozione. Ci ha scatenato paura? Significa che abbiamo bisogno di proteggerci da quella cosa, è pericolosa. Ci ha scatenato felicità? E’ una cosa che ci fa star bene, ne vogliamo ancora. Ci fa arrabbiare? Ci dobbiamo difendere, quella cosa evidentemente non è buona per noi in qualche modo. Potete sostituire cosa con persona o evento, il concetto è sempre quello. Se capisci che emozione ti suscita veramente una cosa, una persona, un evento, allora puoi trovare la reazione giusta da mettere in campo per il tuo benessere e la tua autoconservazione. Lo so, pare la scoperta dell’acqua tiepida, ma vi assicuro che non è così scontato, nel mio mondo.

Per questo, anche, è importante che una persona autistica impari ad avere a che fare con le proprie emozioni, a riconoscerle bene. Perché questo ti rende più funzionale, ti fa stare meglio in ultima analisi. Ti aiuta anche a non essere preda di emozioni troppo forti a cui non sai dare un nome e quindi non sai né che farci né che fare di te stessa. E a dare all’emozione il giusto posto nel processo continuo di relazione con l’ambiente in cui vivi. Processo in cui hanno posto le emozioni esattamente come la razionalità, ognuno con il proprio ruolo e momento. Perché non c’è niente di peggio quando sbagliate a vestirvi la mattina e mettete le mutande sopra i pantaloni, anziché sotto.

Ecco perché mi sento estremamente a disagio quando succede una cosa come quella di oggi: stavo guardando la conclusione del convegno Erickson sulla qualità dell’inclusione scolastica, un meraviglioso regalo fattomi da un’amica (a proposito, veramente un bellissimo regalo, Babbo Natale prendi nota per il futuro). E l’ultimo intervento è di un docente famoso in tutta Italia per le sue lezioni pubblicate anche online come video per flipped classroom. Un innovatore insomma, un figo. E lo dico senza ironia, è così.

Però oggi, al convegno, ha presentato una poesia scritta, a quanto pare, da un ragazzo “con gravi problemi”, e consegnatagli durante un incontro con la scuola. La legge, spiegando quanto lo ha fatto piangere. Ora, questo intervento per me è problematico sotto due aspetti: il primo, che non è dato capire se veramente quella poesia l’abbia scritta quel ragazzo, perché non si capisce di che tipo di “problema mentale grave” si parli, il ragazzo viene descritto come uno che non parla, e quindi il dubbio di essere di fronte alla solita comunicazione facilitata è lecito. E qui già si spalancherebbe un mondo…

Ma il secondo è che, chiunque abbia scritto quella poesia, nel momento in cui viene presentata a una platea e in quel modo ci troviamo di fronte a del puro inspiration porn. Quello che punta alla pancia del pubblico, non al cervello, punta a suscitare emozioni che manco Carolina Invernizio. C’è tutta la retorica del disabile gigante buono con cuore da bambino, che ha un mondo interiore sorprendente (sorprendente per chi?). Per un nobile scopo, sia chiaro, cioè favorire, richiedere inclusione ed empatia per chi ha problemi gravi, appunto. Ma la mia domanda è, bisogna proprio appellarsi alla biancheria intima, per chiedere qualcosa che è un diritto? Far vedere la biancheria intima propria e altrui, in pubblico, anzi sventolarla in pubblico, perché qualcosa si muova nelle altrui capocce? Io, siccome che so’ autistica, lo trovo imbarazzante. Le mie emozioni servono a me per capire me stessa e la situazione in cui sono, veramente vanno fatte vedere a tutti perché a loro volta loro si sentano emozionati e decidano di farci qualcosa? Ma non è più semplice far capire cosa è giusto e cosa no?

Le persone disabili, che siano disabili cognitive, fisiche, psichiche o tutto insieme, hanno diritto, fottutamente diritto, all’inclusione, e questo senza dovervi far commuovere, senza dover sventolare la loro biancheria o farvi tirar fuori la vostra, pensate a cosa ne avrebbe detto vostra nonna e tenetevela dentro.
Ne hanno diritto, all’inclusione, perché esistono, e ne hanno diritto pure se non sono commoventi, anzi pure se magari sono dei rompicoglioni, esatto, hanno diritto pure ad essere dei rompicoglioni come la sottoscritta, o delle persone meschine, poco interessanti, normali. Insomma, umani, non santini di ispirazione. Non è per questo che sono al mondo, non per farvi sentire migliori, non per rendervi migliori, sono lì per essere sé stessi, come tutti. Quindi riconosciamogli i loro diritti all’interno della scuola senza bisogno di sventolar mutande.

EDIT: una mia amica ha postato questo commento al post sulla mia pagina FB, e io le ho chiesto il permesso di pubblicarlo perché spiega molto bene una delle conseguenze dell’ispiration porn:
“E invece c’è arrivato anche mio figlio di 13 anni che per ottenere qualcosa dobbiamo quasi fare pena, fare insomma leva sull’aspetto emotivo e non su quello vero dei nostri bisogni. Tieni anche conto che noi sulla carta non siamo disabili (solo sulla carta, poi ci sarebbe da incazzarsi un attimo che una commissione abbia deciso sulla base di poche righe scritte e di un colloquio di 5 minuti con un ragazzino che fa un masking mostruoso che non aveva diritto ad avere quello che secondo me gli spettava) e quindi è ancora più difficile non solo ottenere i giusti aiuti ma anche far capire quanto è pesante e difficile la vita per noi a volte. E allora le mutande le facciamo vedere, anzi a volte le sventoliamo a mo di bandiera bianca fuori dal finestrino della macchina per avere un minimo di attenzione ed è davvero umiliante. “

L’uragano mensile

Sono appena uscita dalla peggiore sindrome premestruale della mia vita. E non era manco la mia. Era quella dell’Aspiebaby, tesoro de mamma. Anche se sto pensando di risoprannominarlo AspieKatrina, perché delle somiglianze con l’uragano le ho notate negli ultimi giorni.

Perché una cosa che pochi vi dicono, è che la sindrome premestruale di un adolescente autistic* potenzialmente è paragonabile a un uragano livello 5, con la differenza che una roba come Katrina capita ‘na volta ogni 5-6 anni. Le mestruazioni arrivano tutti i mesi o quasi.

Non che non sia un po’ allenata e preparata, perché pure l’Asperboy ci ha fatto vedere e ha visto i sorci in tutte le più delicate sfumature del verde, prima che la scienza medica intervenisse e lo mandasse in menopausa farmacologica per il bene suo e di tutti intorno (credo sia un rarissimo caso di figlio andato in menopausa prima di sua madre!).

Ora io lo so che molt* adolescenti e adult* soffrono di sindrome premestruale, anche piuttosto impegnativa, ma nel caso di adolescenti autistic* ci sono un paio di cose che complicano la vita a tutti.

La prima è la difficoltà di gestione del comportamento, per cui se normalmente possono andare in crisi o in meltdown per forti sovraccarichi, qui ne basta molto meno. Il nervosismo è palpabile come elettricità nell’aria, anche se cerchi di camminare in punta di piedi. La soglia di sovraccarico sensoriale ed emotivo si abbassa, con tutte le sue conseguenze. In pratica, quando l’Aspiebaby arriva ad avere un meltdown al giorno, che sia di pianto o rabbia o tutt’e due, è ora di preparare il pacco degli assorbenti, perché ci siamo quasi, e pure l’elmetto, perché prima di arrivarci comunque ne vedremo delle belle, ahinoi.

La seconda è l’alessitimia, cioè la difficoltà per le persone autistiche di riconoscere ed etichettare i propri stati interni e capire anche da cosa dipendono. Questo ha l’effetto di peggiorare il senso di agitazione, nervosismo, depressione, ansia, senso di perdita del controllo della creatura in questione, e diventa un po’ una sorta di cane che si morde la cosa: sono nervoso, incazzoso e triste, anzi manco capisco bene come sto, e non capisco il perché di questo stato d’animo, non riesco a controllarlo né a identificarlo, e questo scatena ancora più ansia e mi fa agitare ancora di più. E questo cane che si morde la coda, questo malessere premestruale, quando arriva a certi livelli, ha proprio un nome: disturbo disforico premestruale. Lo trovate nel DSM 5, non me lo sono inventato.

Cosa fare? La diagnosi e terapia di un disturbo disforico premestruale compete al npi o al ginecologo, dipende a chi vi rivolgete, ma le cose possibili per tamponare la situazione sono varie, e noi le abbiamo sperimentate un po’ tutte.

Intanto, cercare di tenere un calendario/diario del ciclo, per ricordarsi e soprattutto ricordare alla creatura che forse si sente così perché sta arrivando il ciclo, e già saperlo può aiutare, per quel famoso fenomeno del cane che si morde la coda. Oggi si sente così, ma passerà. E’ passato altre volte, quasi miracolosamente.
Abbiamo utilizzato integratori di magnesio, che aiutano a diminuire i sintomi sia fisici che psichici della sindrome premestruale. Per essere efficace però va preso regolarmente, non solo quando siete già nell’occhio del ciclone, e semmai aumentato un po’ nei giorni precedenti il ciclo.
Abbiamo usato anche altri integratori di tipo più specifico, ma penso dobbiate sceglierli con il consiglio di un medico. In ogni caso, tenete d’occhio l’emocromo, perché quando hai un adolescente autistic* che ha cicli abbondanti e selettività alimentare, l’anemia da carenza di ferro e/o vitamine è sempre in agguato. E un adolescente anemico e/o con carenze vitaminiche in sindrome premestruale è ancora più instabile.
Abbiamo anche utilizzato la soppressione del ciclo con minipillola in uso continuato, ovviamente sotto controllo medico, ed è stata una soluzione piuttosto efficace per noi. Tenete presente che l’Asperboy a causa di disturbo disforico premestruale e mestruazioni molto dolorose, perdeva circa 7-10 giorni di scuola al mese. Un po’ troppi, per un ragazzino che aveva già un sacco di altri problemi scolastici e non. Quindi, abbiamo sottoposto la questione a npi e ginecologa e hanno convenuto che valesse la pena provare a farlo. Non ce ne siamo mai pentiti. Quegli uragani lì sono un lontano ricordo, per fortuna. Poi sono arrivati i bloccanti ormonali e il resto è storia.

Ma ora altro giro altra corsa, siamo in ballo con l’Aspiebaby! Che, stellina, dopo avermi massacrato l’autostima per circa una settimana, facendomi sentire l’origine di tutti i mali di questa terra, ora mi adora e sono la migliore madre del mondo. Fino al mese prossimo.

Socializzare, stanca

Lavorare, scriveva Pavese, stanca. Anche socializzare, direi. E non è solo una questione di sovraccarico sensoriale o di cercare di capire cosa pensa e vuole l’altra persona. Per me, e credo per molti altri, è una questione che il rapporto umano è destabilizzante. E non c’è niente che io cerchi quanto la stabilità.

La stabilità, la costanza, la ricerca di routine, di equilibrio, sono delle costanti dell’autismo. Siamo, in generale, persone che hanno difficoltà a gestire i cambiamenti, le oscillazioni, le interruzioni. E questo vale anche per le emozioni che proviamo, per il nostro stato interiore, non solo per gli eventi esterni. Perché non è vero, nella stragrande maggioranza dei casi, che non proviamo emozioni e sentimenti. Possiamo avere più difficoltà a riconoscerli, a dar loro un nome, e a gestirli. Ma ci sono, e condizionano la nostra vita come e forse più che per altre persone.

Da questo punto di vista, le relazioni umane sono sempre un rischio. Intendiamoci, le relazioni umane sono fonte di moltissime cose positive. Personalmente, sono convinta che l’essere umano abbia bisogno per definizione, bisogno degli altri, e questo è quello che mette in moto la Storia, in un certo senso: il fatto che nessuno ce la fa da solo, mai. E quindi avere bisogno non è una cosa negativa e lamentevole, è il motore delle relazioni e in ultima analisi della vita come la conosciamo e la viviamo.

Bene. Però le relazioni sono imprevedibili come gli esseri umani. E già questo per una persona autistica è fonte di stress: non sapere cosa sarà, non poterlo prevedere, sia perché ha meno strumenti per capire l’altro, sia perché l’altro comunque non è una scienza esatta. Poi, il tipo di emozioni che possono darci le interazioni con altri esseri umani può essere positivo o negativo, ma potenzialmente intenso. Ed è anche l’intensità dell’emozione a destabilizzare, prima ancora del “segno” più o meno. Le cose, gli oggetti, gli argomenti di studio, gli interessi elettivi che una persona autistica ha, difficilmente sono imprevedibili e destabilizzanti. Le persone sono tutto un altro par di maniche. Le persone sono enigmatiche, imprevedibili, e per questo in un certo senso pericolose.

Il fatto è che molte persone autistiche spendono molta energia per cercare di mantenere un funzionamento equilibrato, uno stato d’animo “stabile”, senza oscillazioni violente (che si traducono in “stare male”). Grande parte delle routine delle persone autistiche ha esattamente questo scopo. E appunto, il fattore umano insito nelle relazioni sociali è imprevedibile. Tu stai lì tranquilla a portare avanti le tue routine e incocci in quello che je girano le scatole per cavoli suoi ma deve scaricarsi i nervi trattando di merda te. Oppure una persona cara che ti chiama perché ha un problema serio e bisogno di condividerlo. O il colloquio per motivi di lavoro, che diventa un banco di prova della tua capacità di entrare in comunicazione con un altro, e spesso si risolve in modo disastroso. Un incontro casuale che si trasforma in una lunga conversazione in cui scopri lati intolleranti dell’altro che non ti piacciono. Il figlio adolescente con la giornata no. Si dirà che sono cosa che capitano a chiunque, e non sono una tragedia, sono la normalità. E’ vero, capitano a chiunque, ma di solito, almeno per quello che vedo, c’è una maggiore stabilità e capacità di “portare avanti” la propria giornata o vita nonostante queste ondate emotive. Io invece faccio una gran fatica, più di quello che riesco a reggere. La mia barchetta emotiva è sballottata e finisce sulle secche, mi incaglio, non funziono più bene. Ho bisogno di solitudine per riuscire a stabilizzarmi di nuovo, e molto spesso non ho possibilità di stare da sola, non abbastanza. Sogno di trovare il modo di riacquistare miracolosamente equilibrio ed energie sufficienti, insomma la mia “inner peace” in poco tempo (e devo constatare che non esiste, purtroppo). Alla fine mi porto dietro una “fatica sociale” cronica che non riesco mai a ridurre. Quello che succede, è che a un certo punto riduco le mie frequentazioni sociali per il semplice fatto che non posso permettermi di correre il rischio (a volte la certezza) di essere quotidianamente destabilizzata e poi dovermi “rimettere insieme”. Nel bilancio energetico che devo fare per non esaurire le mie energie esiste anche questa voce, devo selezionare le frequentazioni sociali non perché abbia qualcosa contro la socializzazione in sé, non perché abbia qualcosa contro le persone in sé, ma perché sono cose faticose. Magari pure belle, ma tanto faticose.