Jolly incazzati

L’altroieri eravamo a Lucca Comics coi ragazzi. A Lucca Comics i disabili entrano gratis, e un accompagnatore con biglietto ridotto.Bisogna presentarsi a un Welcome desk tra i tre situati in vari punti della città, presentare la documentazione relativa alla disabilità e si ricevono subito i biglietti e bracciali da indossare per entrare nei padiglioni con accesso prioritario. Tutto ok? Non proprio.

Al Welcome desk dove siamo noi ci sono 4 file: tre per i visitatori abili, e una per i visitatori disabili. Fin qui, nulla di strano, anche se direi che sono poche. Il problema è che non è stata prevista una fila diversa per gli accrediti espositori, che richiedono un certo tempo per essere sbrigati, non è come presentare il biglietto e ricevere il bracciale, e quindi fanno la fila con gli altri. Questo rallenta molto la fila, soprattutto dal momento che a quanto pare il sistema non funziona e dicono che devono fare la presa dati a mano, sul cellulare. Vedo gente ferma lì 15-20 minuti per avere un accredito. Quindi la fila fuori si allunga a dismisura e c’è gente, espositori soprattutto, che protesta e si incazza: hanno pagato migliaia di euro per uno stand, e li tengono lì ad aspettare ore.

Cosa fanno i geniali organizzatori? Direi che è facile capirlo: decidono che la fila per disabili diventa la fila per disabili ed espositori.Così i visitatori abili hanno il loro bracciale in tempi più brevi, e in fila per un’ora e rotti per avere un pass ci ritroviamo noi della fila disabili, perché notoriamente i disabili hanno un sacco di tempo libero no? E anche di pazienza, allenata da anni e anni di episodi del genere.

Perché dovete sapere che le risorse per disabili per molta gente sono in realtà una specie di jolly a disposizione di tutti, chi je serve qualcosa arriva e prende, tanto ci si aspetta che abbozziamo sempre. Be’, ci saremmo stufati. #LuccaCG21, non ci siete piaciuti per niente a ‘sto giro.

Alto funzionamento o alta fatica?

Parliamone.
Esiste questo termine, alto funzionamento, per descrivere gli autistici come me. Qual è il problema di questo termine? Be’, sono vari.

Intanto, lasciatemi dire che dire “autistico ad alto funzionamento” non ha nessun senso logico. E’ una contraddizione in termini. Io sono autistica perché, per definizione, come *tutti* gli autistici, non funziono bene in tutta una serie di domini dell’esistenza. Se io fossi una con un funzionamento generalmente buono o perlomeno sufficiente, soprattutto in un paio di aree considerate assolutamente fondamentali non solo di per sé, ma per tutta la vita in generale, come la comunicazione e la socializzazione con gli altri, non avrei la diagnosi. Se ho la diagnosi, è perché a certe cose nun c’arrivo. Period.

Quindi, diciamo che la stessa cultura mainstream neurotipica che decide che io non funziono abbastanza in aree fondamentali e quindi sono autistica, poi decide che però io sono “ad alto funzionamento”, che poi si traduce nel pensare che “vabbe’, ma che problemi c’hai?”. What. Da. Fuck.

Insomma siccome sono ad alto funzionamento, ci si aspetta da me… un alto funzionamento, guarda un po’, quasi come se ‘un c’avessi nulla. E in certe aree magari posso anche farlo, ma non in tutte. O come dicevo, non avrei una diagnosi. Quindi è come se voi guardaste Magic Johnson fare una serie di andate a canestro sovrumane, e poi vi aspettaste che lui vi legga fluentemente senza problemi il Paradise Lost di Milton. Solo che Magic Johnson è dislessico, cari e care, e mi sa che avrebbe difficoltà.
Tra l’altro, una delle “impronte digitali” della neurodiversità è proprio un profilo cognitivo disomogeneo. Significa che se il profilo cognitivo dei neurotipici, cioè il grafico dei punteggi dei vari sub-test di un test cognitivo tipo la WAIS-IV, è tutto sommato piuttosto omogeneo e regolare, ci sono differenze di pochi punti tra i vari subtest, la linea va tutto sommato in lieve pendenza qua e là… quello di un neurodiverso sembra più un ECG che una WAIS, uno zig zag insomma, con punti di forza e cadute separati anche da decine di punti.

Quindi perché a quelli come me appiccicano il termine alto funzionamento, che significa? Significa che me la cavo in qualche modo, a fatica ma me la cavo. Sono allenata per farlo, un allenamento che dura da anni e anni… diciamo che ho iniziato praticamente all’asilo. Ho dei punti di forza, che mi permettono di compensare il più possibile quelli di difficoltà, e non farli trasparire troppo, e non far trasparire la fatica che faccio per farlo. Poggio e buca fanno pari, dicono qui. No, poggio e buca fanno una gran fatica, invece, perché comunque la buca c’è sempre. Ho punti di forza e zone di deficit, su cui lavoro pure, e da una vita, ma non è che spariscano. Questo non è avere un “alto funzionamento”, non più di quanto avere la testa nel frigo e i piedi nel forno significhi essere alla temperatura ideale. Significa semmai avere un funzionamento diverso, con punti di forza e punti di difficoltà tendenzialmente piuttosto diversi rispetto a quelli della maggior parte delle persone, quelle tipiche. Il che rende anche più difficile funzionare, semmai, perché le richieste sono alte ma c’è meno comprensione, meno “reti di sicurezza” sociali, meno soluzioni già note. Me la devo smazzare io, insomma, mentre là fuori pensano “ma sei ad alto funzionamento, che problemi hai?”. Eh.

P.s. esistono anche i problemi legati alla definizione “a basso funzionamento”, che poi è quella rispetto alla quale io sarei considerata “ad alto funzionamento”, magari ne parliamo un’altra volta.

Le cassandre farlocche

Un paio di eventi questa settimana mi hanno fatto riflettere un po’ su una cosa: le predizioni di sventura sul futuro dei figli che mi facevano anni fa. Gli eventi sono stati nell’ordine: il GLO per discutere il PEI dell’Asperboy, una simBatica conversazione con una mamminaperfettina su FB, e un episodio durante la coda all’ingresso per disabili a Lucca Comics. E vediamo come si collegano queste tre cose.

Premetto anche una cosa: io ho due figli decisamente fuori dagli schemi. Mica te la danno pe’ gnente una diagnosi, figurati quando ne inanelli due o tre. Comunque: se voi incrociate la probabilità di essere autistico con quella di essere APC con quella di essere dislessico non binary etc etc etc, anche ammettendo che sono cose che un po’ tendono a viaggiare insieme, finirete per avere una probabilità moooolto bassa. Tradotto: come questi due ce ne sono pochi in giro, molto pochi. Signor*, c’ho du’ pezzi da collezione qui.

Ed è un po’ come avere due creature con 6 o 7 dita per piede: non è che le scarpe che vanno bene a tutti vadano bene anche a loro, magari glie le devi fare su misura. E quindi noi siamo qui a cercare di far scarpe su misura da quando sono nati. Mentre il resto del mondo, siccome loro apparentemente sono dei ragazzini normali, con l’aria vagamente eccentrica ma insomma, parlano camminano sorridono etc. pensa che siano come tutti gli altri, con cinque dita metaforiche. Infatti oggi, mentre eravamo in coda per i pass disabili, una signora mi ha chiesto come facevo ad avere due pass accompagnatori per un solo disabile. Perché l’Asperboy in coda con me per lei era evidente fosse un accompagnatore, e non il disabile in questione. Lei era lì con una ragazzina silenziosa per mano, il mio invece parlava e girava lì intorno quindi non era possibile che fosse disabile. Quindi persino per una persona che ha a che fare con la disabilità invisibile ogni giorno mio figlio era impossibile che rientrasse nella categoria. Ok.

Ora, arriviamo alla simpatica conversazione con Mamma Sottuttoio. Quante volte vi capita di trovare quell* che, nella realtà della vita là fuori o anche più facilmente su qualche social, si produce in giudizi non richiesti su come qualcuno gestisce i propri figli? Oppure sale in cattedra e vi racconta cosa ha fatto l*i e dovreste fare pure voi, magari perché è quello che eminenti pediatr* dicono vada fatto con le creature? E ti predice ovviamente sventure future se non fai come dice. Sembra quasi che te le auguri, anzi, così impari, genitrice scriteriata. Non serve a molto dirgli che tuo figlio ha sei dita, primo perché non ti crede (eh sì tu vuoi fare quella col figlio speciale), e secondo perché questo tipo di persone non concepisce manco l’idea che esistono persone diverse ed esigenze diverse.
Quando sei lì “dal vivo”, l’unica è sorridere e dire che c’hai judo e devi andare, quando sei su FB è più facile perché puoi chiudere la schermata e ciaone. Però diciamocelo, quest* profet* di sventura il tarlo te lo mettono a volte. Specie se hai un ragazzino che di suo è nato problematico, uno con cui sei passata dai terrible two all’adolescenza senza soluzione di continuità, e magari sei in giornata no, sei stanca morta e domani sai che si ricomincia.
La discussione di cui parlo verteva tra le altre cose, su un grande classico internettiano e non, quello del “i cellulari/tablet/computer ai bambini nooooooooo, sono il male, li drogano, i pediatri dicono non più di un’ora al giornoooo, catastrofiche conseguenze”. Detto, tra parentesi, da qualcuno che sta attaccato a uno schermo, e spesso ci sta parecchio. Ma vabbe’, sorvoliamo.

Chiariamo subito una cosa: io non ho intenzione di venirvi a dire: non è vero, sono tutte fregnacce. Lungi da me.
Io vi dico, con tutta la serenità possibile, che sono delle fregnacce *se riferite ai miei figli*. I miei figli sono stati sempre dei ragazzini collegatissimi. Video di cartoni animati (anni di Teletubbies, Dora l’Esploratrice e Masha e Orso che hanno segnato duramente *la mia psiche* semmai, non la loro), musica, videogiochi, e da un certo momento in poi anche social e disegno al computer con tavolette grafiche varie. Il cellulare peccarità solo a 11 anni…. ma tanto avevano già il computer da mo’. Mi hanno sempre raccontato qualcosa di quello che scoprivano e vedevano, io gli ho sempre detto la mia e anche criticato aspramente, ma mai proibito.

Mi hanno detto che ero maTre scriteriata? Sì.
Ho visto catastrofiche conseguenze? No.
C’è stato qualche problema? Convincerli a dormire la sera, che comunque è problematico pure senza schermi e co. con i ragazzini autistici, ma comunque facciamo del nostro meglio per gestirlo, con un po’ di attenzione.
Lo rifarei? Sì. Hanno imparato un sacco di cose, se l’Aspiebaby alle medie ha un inglese livello liceo avanzato è perché i famosi cartoni animati di Dora li guardava in inglese, e pure i video oggi. L’Asperboy sa disegnare al computer o tablet a livello semi-professionale. Si sono divertiti a modo loro, non “come dovrebbero fare tutti i bambini”, loro non sono mai stati come tutti gli altri bambini, vediamo di farcene una ragione. Hanno visto film, hanno trovato materiali infiniti per il loro interesse del momento, hanno studiato tutorial in video su tanti argomenti, hanno trovato comunità di persone simili a loro, anche degli amici, esplorano quel mondo con una grande naturalezza e allo stesso tempo con un occhio critico. E’ l’Aspiebaby ormai che mi spiega quali sono i fandom tossici, o dove impera il sessismo, e quindi da evitare, mica io a lui.
Poi leggono anche libri, visitano musei e cose del genere, anzi direi che fanno queste cose decisamente più dei coetanei, per chi si preoccupa che ne siano deprivati. Ma la vita “connessa” li interessa comunque di più.

Non so quanti siano arrivati fino qui prima di cominciare a scrivermi che non sono assolutamente d’accordo con me e che non accetteranno mai di fare come dico io, ma se ci siete arrivati intanto grazie, e poi sappiate che non vi sto dicendo di fare come me. Come me lo faccio solo io. Voi fate come voi. E’ il segreto per stare tutti bene. Anche perché che ne so quante dita dei piedi hanno i vostri figli? Io so quante ne hanno i miei, e quali scarpe servono a loro.
Quello che però vi consiglio di fare, soprattutto se avete per figli dei pezzi rari da collezione come i miei, è semmai di non farvi condizionare troppo da quello che dicono e ripetono le mamme sotuttoio, e in un certa misura anche da quello che dicono pur validissim* pediatr* o pedagogist* su articoli generici, scritti un po’ per tutti e per nessuno, ma non in modo specifico per vostr* figli*. Ascoltate tutti, ovvio, ma poi ricordatevi che * figl* li conoscete voi, e la decisione finale su cosa fare, dove andare, di cosa hanno bisogno e di cosa non hanno bisogno, è vostra. Le scarpe che vanno bene a tantissimi potrebbero non andare bene a* vostr*. E voi siete lì esattamente per capire quali scarpe vadano bene. Nessuno meglio di voi può deciderlo, visto che li conoscete da quando sono nati. Quegli altri, specie un* cagacazzi random su FB, no, non sanno praticamente nulla di loro.
Guardate che non è una questione di “avere il diritto di farlo”, è che avete il dovere di farlo. Per legge, è responsabilità vostra. Io ci sto attenta a prendere decisioni sui miei figli, perché se faccio la cazzata la pagano loro e io di riflesso, però ormai so anche, per esperienza, che è molto più probabile che decida per il meglio io che, appunto, chi non li conosce proprio o li vede una volta l’anno se va bene. Quindi nel team ci siamo noi genitori e poi l* specialist* che li seguono da vicino. Guarda caso, ci troviamo sempre piuttosto d’accordo.

E finiamo con la riunione del GLO per discutere il PEI dell’Asperboy. Trentacinque minuti secchi a sentire i suoi professori (quarta liceo) dirci quanto è bravo a scuola, quanto è cresciuto, quanto è attivo e interattivo, quanto è la persona fantastica che è. E mentre ascoltavo pensavo che ehi, lui è cresciuto come sopra, con una madre che gli lasciava guardare parecchie più ore di schermi di quanto raccomandato, e facendogli fare altre cose di cui non vi racconto ma sappiate che là fuori erano considerate dannosisssssime, perché conoscendolo bene era ed è convinta che la sua scarpa fosse quella lì. Con un figlio diverso magari avrei fatto diversamente, ma lui è l’Asperboy. E il risultato è che è venuto su bene, e pure l’Aspiebaby sta venendo su con tutte le sue difficoltà di adolescente autistico dis-tutto etc etc ma anche lui molto apprezzato da tutti i suoi prof e chi lo conosce un po’, quindi m’azzardo a dire che le profezie di sventura che mi facevano da dietro il loro schermo Fragolina89 o MammaSottuttoio, ste cassandre dei poveri, non si sono realizzate.
Quindi se per caso le incontrate, mandatele serenamente a cagare pure da parte mia, e andate dritti per la vostra strada.

ABA come lava #2

Mi ero ripromessa di dedicare la mia domenica allo studio e al relax, non necessariamente in quest’ordine, e anche di non infognarmi più in discussioni sull’ABA, poi un’amica mi ha taggato proprio in una di queste e che fai, non tiri fuori l’ascia vichinga? E quindi.

La discussione è stata l’occasione per sintetizzare una volta di più alcuni concetti a proposito di ABA, comportamentismo e dintorni. E sono i seguenti:

  1. L’ABA non è che va bene per tutti e per tutto, dall’autismo all’unghia incarnita. Anche per l’autismo, non va bene per tutti gli autistici. Perché le prove di efficacia tanto sbandierate dimostrano che ABA è efficace per migliorare le performance cognitive, il linguaggio e l’adattamento delle persone autistiche.
    Ma se voi avete un autistico che non ha problemi di cognitivo, anzi magari ce l’ha sopra la norma, e non ha disturbi del linguaggio anzi ha un linguaggio superiore all’atteso per la sua età, e ha buone capacità di adattamento (e ce ne sono)… esattamente che ve ne fate di ABA? Infatti i miei figli ABA non l’hanno visto manco da lontano, per loro molto meglio un approccio cognitivo comportamentale e l’educazione cognitivo-affettiva. EDIT: anche perché il problema degli autistici come i miei figli non è tanto che non si adattano, è che si adattano troppo e alla fine vanno in burnout o in depressione con contorno di ansia, perché si sono sforzati per troppo tempo a modalità che non sono adatte per loro in realtà, sono modalità neurotipiche. Quindi ABA che punta a farli adattare ancora di più è proprio deleterio. Devono imparare ad ascoltarsi e gestirsi, non semplicemente ad adattarsi alle richieste dell’ambiente.
  2. ABA nasce come osservazione del comportamento e sua modifica. E uno dei principi base di ABA duro e puro è che si osserva il comportamento, ma non si fanno ipotesi su quello che avviene all’interno della testa di chi lo “emette” (sic). Ma questo anche perché si riferisce soprattutto a situazioni in cui il soggetto dell’intervento non è in grado di comunicare perché si comporta così. O sono bambini piccoli, o sono persone con disabilità cognitiva, oppure sono animali (sì, i primi studi erano su animali e lo sappiamo benissimo). Allora è inutile chiedere perché quel soggetto fa qualcosa, non è in grado di dirtelo. Se hai un ragazzo disabile grave non verbale con comportamenti violenti in classe, per dire, non puoi chiedergli perché lo fa, o dirgli di non farlo, devi osservare le circostanze e agire su quelle. Nella sua accezione più evoluta poi, quando si tratta di soggetti invece capaci di intendere volere e comunicare come ad esempio gli adolescenti di oggi a scuola, la richiesta del comportamentismo di osservare i comportamenti senza fare ipotesi sulle loro motivazioni è più un invito a non sovrapporre le nostre interpretazioni e pregiudizi, una richiesta di sospendere il giudizio, per lavorare meglio. Perché si sa che se un ragazzino fa qualcosa di scorretto in classe la prima idea di molti insegnanti e genitori è “lo ha fatto apposta”. Mentre invece il motivo può essere benissimo altro. E, qui è il punto, glie lo potete chiedere. Quindi ok osservare cosa fa o non fa il ragazzo, e cosa è successo prima e cosa succede dopo, cosa scatena quel comportamento, per modificare la situazione e quindi il comportamento, ma poi se siete dei pedagoghi degni di ‘sto nome, a bocce ferme gli potete anzi gli dovete chiedere perché lo faceva, per capirlo meglio, e farcelo riflettere. E farne occasione di crescita per entrambi. Sennò che ci state a fare?
  3. Il motivo 2 secondo me spiega una buona parte dell’opposizione che l’ABA incontra a scuola, da parte dei docenti. Perché a un docente tu non puoi andare a dire che non deve assolutamente occuparsi di cosa c’è nella testa del suo allievo, il docente è esattamente di quello che si occupa nella vita, è il suo lavoro. Quindi, attenzione a proporre una versione del comportamentismo declinata in senso estremo e che è totalmente incompatibile con la pedagogia moderna.
  4. ABA non è manco l’unico approccio ad applicare i principi del comportamentismo, il Teacch utilizza gli stessi identici principi, ma inseriti in una diversa cornice di riferimento e “atteggiamento” nei confronti dell’autismo e della disabilità in generale, e lavora anche questo in una prospettiva evidence based. O l’Early Start Denver Model, per i bambini più piccoli, che lavora in ambiente naturalistico. Guardatevi intorno che non c’è solo ABA come comportamentismo efficace.
  5. Come ho già scritto altrove, l’ABA moderno in realtà ha preso spunti e contenuti da altri approcci assolutamente non comportamentali, come ad esempio (ma non solo) i principi evolutivi vygotskjiani di zona di sviluppo prossimale, punto di forza, ambiente naturalistico etc. per rimediare all’eccessiva rigidità e limitatezza dei risultati, tipo la difficoltà di generalizzazione di quanto appreso. Ma non lo dice, perché per un approccio che si gloria di essere il meglio figo del bigoncio superiore a tutti gli altri, capisco che ruga un po’ ammettere di aver avuto dei difetti oppure ‘nziamai! di aver dovuto imparare qualcosa da altri. Però è così, mettiamocela via. Quindi prima di proclamare che tutto è ABA o deriva da ABA, come fanno certi profeti nel ramo, proviamo a chiederci anche cosa dell’ABA deriva da altro (e vi dò due indizi: ICEN e Pivotal Response Training).

Brevemente (more later)

Il grido di battaglia, ma sarebbe meglio dire il disco rotto che suona e risuona sui gruppi dedicati al tema a seguito della sentenza del TAR sul nuovo PEI, “fuori dall’aula non è inclusione!!!1!!”, è la dimostrazione dell’incapacità di mettersi nei panni degli altri, soprattutto dei neurodiversi, e pensare che quello che voglio io lo debbano volere/accettare tutti. E’ anche un sintomo, per me che neurodiversa lo sono e guardo al mondo attorno a me a volte con curiosità a volte con perplessità, dell’importanza (eccessiva) che viene attribuita alla socializzazione, allo “stare insieme”, al limite di qualunque socializzazione purché sia. Be’, no. La socializzazione va bene quando va bene, tautologicamente. Ma non è un valore assoluto. Io di socializzare tanto (troppo) non solo non me ne faccio nulla, ma mi fa pure stare male. E per quanto venga visto male, sia io che i miei figli troveremo spesso e volentieri più interessanti i nostri interessi che la socializzazione. Non sempre, dipende pure con chi si parla di socializzare, ma spesso sì. Se vi sembra triste (mi vien detto così a volte) è un problema vostro, che non capite, e che non voglio che diventi il mio. Quindi non confondete inclusione con compresenza, quando si tratta di noi sono due cose che non coincidono necessariamente.