L’altro ieri mi hanno tolto la cistifellea, finalmente. Adesso posso affrontare più serenamente il periodo natalizio, non dovrò guardare il pandoro da lontano sospirando.
I ricoveri ospedalieri sono traumatici un po’ per tutti, e per una persona autistica possono esserlo anche di più. La cosa che mi preoccupava di più era il momento dell’anestesia (credo che sia così per molti, autistici e non). Non avevo paura dell’operazione in sé, quella so’ tre taglietti sulla pancia e via, era proprio l’idea di perdere coscienza, di non avere più il controllo, di quel tempo indefinito di cui non mi sarei ricordata. Una sorta di buco nero. Avevo già fatto un’anestesia generale anni fa, e quindi sapevo che non mi sarei accorta di addormentarmi e nemmeno di svegliarmi, solo che a un certo punto sarei riemersa da questo sonno artificiale senza sogni, una specie di assenza di me. Un ignoto da attraversare senza esserci, da cui riemergere senza averlo sperimentato. E questo sì, mi spaventava.
La mia prima grande fortuna è aver trovato un’anestesista gentile, professionale, accogliente. E’ stata lei a farmi la visita pre-operatoria, ed io ho preso coraggio e le ho spiegato che sono nello spettro autistico, e che avrei potuto reagire in modo un po’ particolare ai farmaci anestetici, e a causa di forti stress avere momenti in cui divento meno verbale o non verbale, non rispondo, sono cosciente ma mi muovo lentissimamente o non mi muovo. E lei ha capito, anzi ha sintetizzato tutto in un’espressione, “non contattabile”, che mi è sembrata adattissima. Ha annotato tutto in cartella in modo che i colleghi sapessero cosa si trovavano davanti, nel caso. Le ho spiegato la mia difficoltà a capire il dolore, riconoscerlo e comunicarlo, e mi ha rassicurato dicendo che avrebbe inserito in cartella l’indicazione di farmi un blocco antalgico durante l’operazione proprio per aiutarmi a non stare male. Sono uscita dalla visita già rincuorata e più tranquilla.
Il giorno dell’operazione sono arrivata in reparto con il mio zainetto pronto alle 7 di mattina, diligentemente a digiuno di cibi e liquidi dalla sera prima. E mi sono sentita dire che c’erano tre politraumi in sala operatoria, quindi la routine era tutta scombinata e non sapevano se sarebbero riusciti ad operarmi come programmato. Mi sono messa in attesa paziente, sferruzzando e appisolandomi su divanetti scomodissimi. Diciamo che dopo 5 o 6 ore così, sempre a digiuno e senza bere, cominciavo a sentirmi piuttosto stressata e molto stanca. Alla fine però la pazienza è stata premiata e alle quattro di pomeriggio mi hanno portato in sala operatoria.
Il problema è che ormai ero stanchissima, nervosa, affamata e disidratata, mollata lì su una barella in corridoio nel reparto operatorio, che per chi non lo sapesse è uno dei posti più freddi che ci siano, con addosso solo un camice di carta e un lenzuolo, almeno una coperta potevano darmela, ho pensato, per sentirmi più protetta. Luci al neon ovunque. Attesa senza sapere cosa e quando, ogni tanto qualche chirurgo, mai lo stesso, che si avvicina e mi chiede cose che fatico sempre di più a ricordare. Ho iniziato a tremare, non so se per il freddo o per la tensione, e a cercare di dondolarmi per calmarmi un po’. Poi è arrivata l’anestesista, ed ho scoperto che era la stessa che mi aveva fatto la visita preoperatoria. E’ stato come rivedere una madre putativa in mezzo a tutti quei camici, l’ho adorata subito a cominciare dalla cuffietta con i pupazzini colorati. Con lei al mio fianco, anzi dietro la mia testa, ho pensato che potevo farcela.
E mi hanno portato in sala. E qui è iniziato il problema: la sala operatoria è un luogo freddo e alieno, totalmente non familiare, e le luci da sala operatoria sono enormi dischi luminosi piazzati attorno e vicinissimi al tavolo operatorio, ovviamente. Immaginate la lampada del dentista, moltiplicata per 10 o 15 come dimensioni, e ce ne sono due o tre attorno a voi, che incombono come enormi occhi di Sauron puntati. Estranei in tuta verde si muovono oltre le luci. Poi qualcuno inizia a fissarvi il braccio da un lato, a togliervi camice e biancheria, gente che si muove attorno senza guardarvi, parla di cose che non capite, ogni tanto si avvicina e traffica sul vostro corpo, ogni tanto si allontana… Ho iniziato a piangere, perché non potevo fare altro, non potevo nemmeno muovermi. Il chirurgo si è avvicinato e ha cercato di dirmi che non c’era bisogno di piangere, un po’ come si dice a una bambina. Ho deciso di spiegargli la situazione, sperando che capisse. “Dottore, io sono un’autistica ad alto funzionamento. Ci sono troppe luci qui per me, e non ho il controllo della situazione. Questo può essere molto stressante”. Mi ha detto di stare tranquilla. Io un po’ assurdamente gli ho detto di stare tranquilli anche loro, che era solo un problema di essere sotto pressione, insomma cercavamo di rassicurarci a vicenda che andava tutto bene, sì, era una scena un po’ surreale in fondo. A quel punto dalla sua postazione dietro la mia testa è intervenuta la mia mamma-anestesista e mi ha detto, chiamandomi per nome, che mi avrebbe spiegato passo passo tutto quello che faceva, in modo che sapessi cosa stava succedendo, per aiutarmi a sentirmi meglio. Non la vedevo, ma sentivo la sua voce che mi parlava e diceva ancora il mio nome. E lì subito mi sono sentita più tranquilla, mentre lei iniziava a sistemare gli elettrodi per monitorarmi, cercare la vena, iniettarmi il primo farmaco, sempre parlandomi e spiegando cosa stava facendo. Mi sono addormentata ringraziandola.
E quindi eccomi qui. Sono riemersa dall’anestesia, poi, come si riemerge dal fondo di una piscina, venendo a galla lentamente, tra bolle d’aria e rumori attutiti. Mi girava la testa, mi faceva un po’ male la gola per via dell’intubazione, ma le voci attorno erano rassicuranti. Non so quanto ci ho messo, a svegliarmi, e non lo voglio sapere, non voglio sapere se ho detto cose strane come dicono che capiti in fase di risveglio. E’ andata, e sono contenta. La mia anestesista preferita deve avermi messo in vena roba buona davvero, perché a due giorni di distanza voglio bene a tutti, sono allegra, e mi sono passati tutti i dolori, anche la cervico-brachialgia che mi tormentava da settimane e per cui manco riuscivo a dormire. Mi piacerebbe tornare a ringraziarla e spiegarle quanto è stato importante ed efficace quel che ha fatto. Che ce ne vorrebbero di più, di medici come lei, pronti ad ascoltare e capire.
(quando ho avuto i miei figli frequentavo un forum dedicato alla maternità, e andavano alla grande i racconti parto, genere letterario di cui si può anche fare a meno, a posteriori, ma che avevano la loro funzione catartica ed informativa in quel contesto, sia per chi raccontava che per chi leggeva. Anche io all’epoca ho scritto i miei bravi racconti parto, e spero che nessuno vada a ripescarli dalle viscere del web per mettermi in imbarazzo. E niente, mi è tornato in mente scrivendo questo racconto che in fondo in fondo somiglia un po’ a un racconto parto, almeno nella speranza che sia utile a qualche paziente autistico per affrontare meglio un intervento, e a qualche medico per sapere cosa potrebbe trovarsi davanti, e come aiutare i propri pazienti autistici. E che la mia anestesista preferita mi legga, e nel caso grazie di nuovo, dottoressa)