Negli ultimi giorni m’è capitato di leggere argomentazioni di cosiddette radfem, cioè femministe radicali, contro il riconoscimento delle donne transgender come donne. Roba che poi devo chiedere scusa a tutti i miei neuroni e portarli fuori a cena per farmi perdonare, ma ok…
Una delle argomentazioni era più o meno: sveja donne, preoccupiamoci di noi, dei nostri problemi, non di quelli deg* altr*!
E io ho pensato: cosa pensi che stia facendo, sistah? Mi sto occupando di qualcosa che mi riguarda parecchio, proprio come donna cisgender. Perché forse a qualcuno sfugge ancora che un mondo con meno diritti e sicurezza per qualcuno, è un mondo meno sicuro per (quasi) tutti gli altri. E l’ho imparato sul campo.
Ho due figli autistici. Questo mi ha messo, nella società e soprattutto nella scuola, fino ad oggi, in una posizione privilegiata per capire meglio alcune dinamiche. Una delle dinamiche che mi è molto chiara, ormai, è che i miei figli sono una specie di cartina tornasole per capire se in quella scuola, in quella classe, le cose vanno bene o no. Se ci sono dinamiche tossiche, se c’è un adulto disfunzionale, per esempio, i miei figli sono i primi a zompare. E lo fanno in modo spettacolare, eh, fobie scolari, attacchi di panico, condotte oppositive, ansia di quella brutta etc.
Ma, e qui c’è il MA a cui volevo arrivare, non è che gli altri stiano benone, in quella classe. Lo dice molto bene il detto: se Atene piange, Sparta non ride. Cioè siamo tutti collegati, e se in una realtà qualcuno viene calpestato, ci sono fortissime probabilità che sia solo la punta dell’iceberg, e che tutti quelli che sono in quella realtà stiano male o perlomeno non molto bene, in gradi diversi, ma insomma anche loro nella stessa barca. Ed è una barca che rischia di andare pure più sotto. Nella classe che ci ha fatto vedere i sorci verdi con l’Asperboy, e di cui lui conserva un ricordo che praticamente è un PTSD, non era l’unico a star male, era solo quello più precoce ed evidente, e tra l’altro da lì sono usciti alcuni tra i più fulgidi esempi di bullismo degli anni successivi. Perché le dinamiche disfunzionali prodotte da adulti fuori controllo hanno fatto danni a tappeto, mica solo su mio figlio. Ma ognuno alla fine pensava ai cazzi suoi, nel gruppo genitori, e noi eravamo soli a smazzarcela.
Ora, le radfem a me ricordano tanto le madri del capannello fuori scuola, che sotto sotto lo sapevano che la situazione era quel che era, e più o meno vari bambini ci stavano male, non solo il mio. Ma alla fine della fiera pensavano “ma io mi occupo solo del* mi*, che per ora regge, chi me lo fa fare di preoccuparmi pure per i figli degli altri?”. Te lo dovrebbe far fare il tuo cervello, se tu ce l’avessi, pensavo, perché se i miei figli stanno male in un posto, significa che quel posto è tossico in qualche misura, e fossi in voi non ci lascerei serenamente manco i vostri.
Quindi, siccome io non sono davvero la classica madre del capannello, anzi, vi dico che per me è vitale che siano riconosciuti i diritti delle persone transgender, e in particolare delle donne transgender, perché loro sono una delle categorie più calpestate e sono come i miei figli: sono una delle cartine tornasole di come vanno le cose in una società per tutti, della direzione che hanno preso i diritti di tutti. Quindi anche dei miei che sono una donna cisgender. E sono stata ad Atene mentre a Sparta pensavano di essere al sicuro facendosi i cavoli propri, pover* scem*.
…per un (non) breve comunicato di pubblica utilità. Siccome ultimamente è apparso un nuovo filone di opposizione all’esistenza di persone transgender, che si basa sul fatto accertato che molte persone transgender o con identità di genere non conforme sono anche autistiche e viceversa, e però poi fa uso della solita idea abilista e paternalista degli autistici come persone incapaci di autodeterminarsi, sì insomma dei fresconi che a quanto pare puoi intortare come te pare con il GIENDER!… vediamo di fare un po’ di chiarezza sulla questione.
Ne parlerò dal punto di vista procedurale, diciamo, perché là fuori è pieno di gente che pensa che entrare in un centro per l’identità di genere con un minorenne sia come entrare dal parrucchiere, che tu gli dici che vorresti una spuntatina ma quello non ti ascolta e fa come je pare, e due ore dopo sei fuori di lì con mezza testa rapata a macchinetta perché non vi siete capiti ma ormai la frittata è fatta.
Ecco, no, non funziona così, ma proprio per niente. Sono qui per tranquillizzarvi in proposito.
Tanto per cominciare, quando vai in un centro del genere con tuo figlio ci vai perché qualcuno ti ci ha indirizzato, e di solito è un neuropsichiatra infantile o un pediatra o uno psicologo. Insomma, non te lo ha detto qualcuno laureato all’università della vita, di solito te lo dice qualcuno che con i bambini ci lavora, e con il tuo in particolare.
Poi quando entri, sei solo all’inizio del percorso. Che prevede mesi o anni, e ripeto e sottolineo: anni, di colloqui psicologici e test con i genitori e con il minore, portati avanti da professionisti, cioè psicologi e neuropsichiatri infantili, non da pippo pluto e topolino.
Più il minore è piccolo, più si aspetta e si valuta. E tra le prime cose che viene indagate mediante test c’è proprio l’appartenenza allo spettro autistico. Perché siamo in un centro dove lavorano professionisti formati in questo campo specifico, e oggi si sa bene che identità di genere non conforme e spettro dell’autismo si sovrappongono in parte. Quindi la vedo difficile che in questi centri propongano una transizione a un minorenne autistico non diagnosticato… perché nel caso lo diagnosticano loro prima di fare qualunque cosa.
Nei mesi o anni prima di fare alcunché di medico, si sostiene *l ragazzin* e la famiglia con colloqui psicologici che aiutano a gestire intanto la transizione sociale, in modo da vedere se effettivamente essere socializzati come appartenenti a un genere diverso da quello attribuito alla nascita ha dei risvolti positivi per quel ragazzin* lì. Non si fanno passi più lunghi della gamba, e meno male. Quel tempo serve magari a capire fino a che punto c’è esigenza di transizione anche medica, anche. Nessuno spinge per farti transizionare o per fartelo fare in un modo totale, diciamolo chiaramente. Si mettono in ascolto e aiutano a chiarire le cose, per tutti, anche per i genitori. Te lo chiedono trentordicimila volte, se sei sicur*.
Dopodiché, passiamo alla questione ormoni e bloccanti. Per prima cosa, con i protocolli italiani scordatevi qualunque ormone prima dei 16 anni. Prima di quell’età, sono consentiti solo bloccanti, se proprio vi danno qualcosa. E questo tanto per smentire chi parla di fretta di prescrivere ormoni per “trasformare” i ragazzini: i bloccanti sono l’esatto opposto della fretta. Fermano in modo totalmente reversibile – cioè si può tornare indietro in qualunque momento, basta sospenderli – lo sviluppo puberale, per guadagnare tempo per quei famosi anni di colloqui di indagine e presa di consapevolezza del minore e della sua famiglia. I bloccanti significano: ce la prendiamo calma qui, per capire e aiutarti a capire chi sei veramente, ma intanto ti togliamo la sofferenza di vederti cambiare come non vuoi troppo rapidamente, e nel caso tu vada avanti ti risparmiamo interventi troppo invasivi più avanti. Vi pare poco? A me no.
Ma se pensate che i bloccanti ve li diano così facilmente, scordatevelo: prima ci vuole una diagnosi di disforia di genere e poi un nulla osta che dice che non ci sono condizioni che sconsigliano o contrastano con la somministrazione di bloccanti. A occhio e croce questo richiede che intervengano, come accennavo sopra, due o tre psicolog*, un endocrinolog* (previe analisi del sangue a tappeto su tutti gli assi ormonali e valutazione delle condizioni ossee) e un neuropsichiatra infantile. Tutti devono essere d’accordo. Ci vogliono tranquillamente altri mesi. Altro che bloccanti facili.
Non è mica finita, che vi credete: durante la somministrazione di bloccanti, si continuano a fare i colloqui psicologici, e si viene sottoposti ogni 4 mesi alle solite analisi a tappeto per controllare che tutto vada bene, e visita endocrinologica di controllo.
Arriviamo ai 16 anni, quindi, e si può iniziare a parlare di ormoni. Ormai l’avrete capito, che ve toccano nuovi colloqui e visite, vero? Non solo, siccome a 16 anni si è minorenni, ci deve essere il consenso di entrambi i genitori. E attenzione, non parliamo di quei fogli sul consenso che vi fanno frettolosamente firmare quando dovete fare una procedura medica, il protocollo prevede che i genitori debbano essere informati a voce, in presenza, da parte dei sanitari, poi firmano non il consenso, ma un foglio dove dichiarano di aver ricevuto i fogli con tutte le informazioni. Poi se ne vanno a casa, e dopo congruo periodo di tempo per leggersi bene i fogli e pensarci su, tornano e solo allora firmano il consenso. Qualcuno ha ancora la faccia di parlare di fretta o di intortamento?
Bene, vi abbiamo trasmesso il percorso di un adolescente con disforia di genere in un centro regionale dedicato all’identità di genere, con la gentile partecipazione di almeno 2 neuropsichiatri infantili, 3 o 4 psicolog* in totale, un endocrinologo e due genitori che quel ragazzin* lo conoscono da quando è nato.
Quindi se pensate di saperne di più di sto popo’ di professionisti qui sopra, o che gli ormoni ve li diano come caramelle, si vede che avete mangiato pesante ieri sera e ve lo siete sognato. Tenetevi leggeri in futuro, e informatevi, possibilmente da chi lavora in questo campo o chi ne fa esperienza diretta, non da chi fa sparate sensazionalistiche ma in realtà non ne sa nulla. Grazie.
Serve davvero una giornata dell’Orgoglio Autistico?
Serve, come del resto servono gli altri Pride, nella misura in cui il mondo attorno vuole importi più o meno consapevolmente 365 giorni di Disperazione/Vergogna Autistica. Facendoti pensare che essere quel che sei sia una cosa sbagliata, o una malattia, qualcosa di cui dovresti volerti liberare, qualcosa da mascherare sotto uno strato di comportamenti appresi etc.
Insomma, se essere autistico fosse veramente visto come una normale varianza dell’essere umano nessuno sentirebbe il bisogno di dire: e sai cosa invece? Io sono proprio orgoglioso di essere autistico.
Nessuno marcia per l’Orgoglio dei Capelli Biondi, perché a nessuno è mai passato per la testa di considerare l’esser biondi una cosa di cui dolersi e da cambiare assolutamente. Quindi a nessuno è mai sorta l’esigenza di marciare proclamando “fatevi i cazzi vostri, a me i miei capelli biondi piacciono parecchio e me li tengo così”.
A me piace essere come sono, accetto più o meno con buona grazia gli inevitabili lati negativi perché di cose tutte belle tutte buone dubito che ne esistano, e perché i lati positivi mi piacciono e sopravanzano i negativi, almeno per me. So che non è così per tutti, e va bene. Si può non essere contenti di essere autistici, o di avere un parente autistico, non mi va proprio di mettermi a discutere questo. Ognuno avrà la sua storia e la sua posizione in merito.
L’unica cosa che vorrei non dover più leggere è “ma che cosa c’entra/serve una giornata dell’Orgoglio *insert here minoranza*?”. Questa veramente è la domanda più idiota che si possa fare, spesso è pure in malafede, in ogni caso presuppone una gran pigrizia mentale. Next question, please.
Warning: discorsi fuor dai denti ahead. Il gattino serve solo a stemperare un po’.
Qualche giorno fa, sulla bacheca di un mio contatto, sono capitata in una discussione in cui si è fatta menzione degli attivisti autistici non verbali in USA. E a me, quando leggo queste cose, ormai scattano i campanelli d’allarme.
Perché? Perché l’attivismo made in USA ha preso una pericolosa china ideologica, sbilanciatissima, che rischia di fare più danno che altro. Quando mi sono affacciata nel meraviglioso mondo dell’autismo e ho iniziato a guardami intorno, mi sono iscritta ad alcune pagine sull’argomento, soprattutto in inglese, e quindi scritte da inglesi o americani, a volte autistici, altre volte genitori di autistici. Inizialmente ho apprezzato molto il taglio “dalla parte dell’autistico”, con forti e per me giuste richieste di riconoscere la diversità della mente neurodivergente e il suo diritto di essere come è ed avere accoglienza e accomodamento. Pian piano però ho iniziato a leggere, negli ultimi tempi, cose che mi lasciavano di stucco. Per esempio, l’endorsement di pratiche scientificamente sconfessatissime come la comunicazione facilitata, nelle sue varie reincarnazioni con nomi diversi, strumenti diversi ma sempre la stessa identica base: qualcuno che fa da assistente e “facilitatore” all’autistico di turno. Che di solito è un autistico che da solo non riuscirebbe manco ad allacciarsi una scarpa o andare in bagno, ma qui rivela doti insospettabili di eloquenza, dialettica e persino poesia.
Il mio allarme è aumentato quando ho saputo che nel board dell’associazione più vocale e autistica del mondo dell’autismo americano, l’ASAN, sedeva una persona che comunica con la comunicazione facilitata. Lì mi sono cascate proprio le braccia, lo ammetto, e ho smesso di seguire del tutto le loro pagine e iniziative.
Lo dico senza tanti giri di parole, de-medicalizzare l’approccio all’autismo è una battaglia sacrosanta, ma non significa, non può significare, de-scientificizzarlo. Se per dire no alla medicalizzazione eccessiva vi buttate in braccio a qualunque spacciatore di fuffa antiscientifica, state buttando con l’acqua sporca anche il bambino. Autistico.
Cose come la comunicazione facilitata (che attenzione, è cosa ben diversa dalla CAA, la comunicazione aumentativa alternativa) sono state ampiamente dimostrate essere inesistenti, quello che ne esce non è farina del sacco dell’autistico ma, in modo più o meno inconsapevole, del facilitatore. Capiamoci bene: dare spazio alla comunicazione facilitata non è una innocua consolazione per le famiglie di ragazz* gravi, significa toglierne alla vera comunicazione da parte degli autistici non verbali o solo parzialmente verbali. Significa non investire tempo e risorse su metodi scientificamente validati e raccomandati che possono veramente migliorare le possibilità di comunicazione di una persona autistica con disturbo grave del linguaggio. Significa rischiare che quello apparentemente vi scriva un poema sullo scorrere del tempo e come questo lo lacera interiormente, ma poi non riesca a comunicarvi che in realtà gli fa male un dente, e per quello sragiona.
Significa anche non volersi arrendere a quella che secondo me è una verità incontrovertibile: che non è tutto bello e tutto sano, per gli autistici. Che esistono autistici con enormi problemi di comunicazione, che forse non saranno mai del tutto superati. Che non è vero che con gli strumenti “giusti” qualunque autistico può comunicare tutto il mondo insospettabile che ha dentro, ci sono e temo ci saranno sempre autistici con una capacità di comunicare molto ridotta.
E questo va accettato, per rispetto nei confronti proprio di quegli autistici. Che sono persone con un valore intrinseco già così, anche se la loro comunicazione è ridotta, anche se sono ridotte le loro capacità di autodeterminazione. Sì, ci sono persone autistiche che non potranno mai autodeterminarsi completamente. Potranno farlo per certi ambiti, e questo va rispettato e coltivato il più possibile. Ma non in tutti gli ambiti.
E questo non perché sono autistici, attenzione, ma perché sono umani. Perché esistono tra gli umani, anche tra i neurotipici eh, anche quelli che non hanno capacità comunicative standard, non hanno un livello cognitivo standard, non hanno prospettive di vita standard. Mi sembra una enorme mancanza di rispetto *per loro* non accettarlo, e cercare di trasformarli a tutti i costi in una imitazione dell’umano standard come favola consolatrice di noi umani standard. Mi sembrerebbe molto più rispettoso e onesto cercare di entrare nel loro mondo per capire come loro possono comunicare, fino a che punto possono comunicare, fino a che punto possono fare. Senza porre limiti, certo, ma senza imporre visioni impossibili. Credo che questo significhi rispettare i loro diritti umani, di essere umani come sono e possono esserlo, non come li vorremmo noi per questioni ideologiche nostre.
E quindi per questo mi preoccupa che l’attivismo USA stia virando decisamente verso una visione fortemente ideologizzata e antiscientifica dell’autismo e di quello che serve per supportare tutti gli autistici, anche quelli che non possono manifestare per sé stessi.
P.s. esistono anche attivisti USA definiti non verbali, che in realtà tecnicamente sono verbalissimi, ma hanno un mutismo (s)elettivo. E allora forse sarebbe più chiaro e onesto dire che sono verbali con mutismo selettivo, invece di ingenerare equivoci e pure false speranze nei genitori di ragazzi con molte più difficoltà di comunicazione che leggono quei post. Ve l’avevo detto che avrei parlato fuor dai denti.
E così anche quest’anno siamo arrivati in fondo alla maratona scolastica. Perché è proprio una maratona, non un mezzofondo. E come nelle maratone dopo il trentesimo chilometro, diventa una gara più che con la strada, con il tuo cervello che ti dice di mollare perché chiccazz te lo fa fare, di fare tutta questa fatica? Quest’anno si vede che i nostri ragazzi hanno trovato le argomentazioni giuste, messo a tacere quella parte di cervello lì, e sono arrivati praticamente in fondo. Le assenze ripetute invece di cominciare a marzo-aprile sono arrivate solo ora, nelle ultime due settimane diciamo. Anche questo è un traguardo.
Certo, sono arrivati in fondo, ma stanchi come maratoneti stanchi. L’Asperboy in particolare quest’anno ha dato tutto, soprattutto nell’ultimo periodo, quello in presenza, in cui fioccavano verifiche per tutti, e a un certo punto un paio di settimane fa è veramente crollato. Mi sono preoccupata, l’ho visto veramente stanco, disorientato, disconnesso quasi, incapace di occuparsi di sé e delle proprie cose. Passava il tempo a dormire fino a tardi e non riusciva a concentrarsi sul lavoro per più di 10 minuti di seguito.
Non che mi meravigli molto, questo, lo sappiamo quanto più faticoso è per lui semplicemente esistere, e percepire. Solo il fatto di stare in un’aula scolastica, con la luce, i rumori, le voci che si sovrappongono, le persone che si muovono, senza far altro, è uno sforzo. Relazionarsi con gli altri, cercando di cogliere i segnali non verbali, analizzare quelli verbali, elaborare una risposta che sia adeguata, un altro sforzo. E non stiamo ancora parlando di cercare di capire la lezione in corso e applicarcisi!
Se penso a mio figlio a scuola, mi viene l’immagine di un giocoliere equilibrista: uno che deve giostrarsi continuamente vari elementi senza farne cadere nessuno, e nel contempo pedalare pedalare pedalare per arrivare in fondo a questa maratona, e per non finire a faccia in avanti. Ogni tanto a faccia avanti invece ci si finisce, purtroppo, e c’è da correre ai ripari per evitare burnout peggiori.
Quest’anno abbiamo deciso di ricorrere come sempre al buon vecchio riposo, ma anche a una di quelle cure ricostituenti che si danno ai convalescenti. Perché è stato veramente come avere a che fare con un convalescente, per molti versi: la stanchezza, fisica e mentale, la difficoltà a prendersi cura di sé e delle sue cose, del suo adorato cane, l’umore sempre irritabile, aveva smesso persino giocare con l’Aspiebaby al loro gioco preferito…
Devo dire che ha funzionato bene, adesso la sua stanza è ordinata e pulita e non più il mucchio di masserizie polverose di prima, si lava e si cambia regolarmente, la mattina riesce ad alzarsi per essere a scuola alle 8, sorride, parla, gioca di nuovo con il fratello, insomma era quel che ci voleva. E questo mi ha ricordato una volta di più che vabbe’ che è autistico, e l’autismo non si cura, ma la persona autistica invece va curata eccome. E vale la pena sempre indagare se alcuni sintomi sono “solo autismo”, e richiedono accomodamento, o sono la fatica di essere autistico che sta incidendo sull’organismo, complicando e appesantendo anche cose che invece sarebbero alla sua portata. (nella foto: un artista del Cirque du Soleil)
L’espressione “essere qui e ora” viene intesa di solito come essere al massimo dell’immediatezza, della concretezza e presenza: essere in quel luogo e in quel momento.
In realtà, qui e ora sono concetti astratti, e non è detto che una persona abbia il concetto, appunto, di essere qui e ora. O di essere stato ieri lì e allora. O che domani sarà là e in quel momento. I concetti di spazio e di tempo richiedono un notevole livello di astrazione, quello di tempo anche più di quello di spazio. Ci vuole una notevole infrastruttura mentale per organizzare i concetti di tempo, e di spazio.
Io so di avere un’ottima infrastruttura per il concetto di spazio, e questo mi permette di orientarmi molto bene e trovare la strada, riesco persino a orientarmi in luoghi dove non sono mai stata prima, una sorta di senso senso per cui so qual è la svolta giusta. Penso di essermela coltivata nei lunghi viaggi in camper con il resto della mia famiglia, da ragazzina, quando davo il cambio a mia madre e facevo da navigatrice per mio padre. All’epoca non esisteva il TomTom o Google Maps, esistevano solo i mitici Atlanti del Touring Club. Quindi mappa in mano, seduta accanto al guidatore con la strada davanti, io dovevo capire dove eravamo sulla mappa da quel che vedevo, e poi descrivere e anticipare a mio padre dove avrebbe dovuto girare. E dovevo farlo possibilmente sapendo leggere una mappa anche capovolta rispetto al senso di marcia, facendo quindi l’operazione mentale di invertire tutte le indicazioni, destra sinistra, avanti indietro. E questo per una persona che non ha automatizzato il senso della lateralizzazione, cioè che confonde destra e sinistra e deve pensarci un attimo, per ricordarsi che “questo è il lato della mano con cui scrivo, sono mancina quindi è sinistra, e quindi l’altro lato deve essere per forza destra” non è facilissimo. Ma l’ho fatto, per anni, e oggi sono meglio di Google Maps. Qualcosa di acquisito ma che ormai è abbastanza automatizzato.
Con il tempo è tutta un’altra storia invece. E questo mi fa pensare che tempo e spazio non siano poi così simili e collegati, mentalmente.
Come ho raccontato in un altro articolo, io come molte altre persone autistiche non ho un senso della sequenza temporale degli eventi, di una struttura lineare del tempo insomma. Il passato per me è un blob di eventi, non è una linea, è un territorio tutto attorno a me. Come faccio a ricordarmi le cose? Ho elaborato un mio metodo per supplire, che in parte deriva dal mio ottimo senso di orientamento spaziale: uso dei punti di riferimento. Ho dei punti di riferimento, tipo torri che si ergono su un territorio e riesci a vedere dovunque tu sia, delle date che conosco, come per lo spazio penso alla mano con cui scrivo per sapere quale lato è la sinistra. E poi uso la memoria visiva.
Per esempio, ho dovuto spiegare a un medico quando una persona della mia famiglia si era ammalata. Per me si era ammalata “un bel po’ di tempo fa”, ma ovviamente il medico ci fa poco con questo dato. Così ho utilizzato la mia memoria visiva, visualizzando il ricordo di quando avevamo accompagnato per la prima volta questa persona al pronto soccorso, e da lì era partita la diagnosi. Mi vedo in piedi nella sala d’aspetto, accanto a mio marito, e in braccio ho mio figlio. Ecco, allora è successo dopo il 2004, perché mio figlio è nato a luglio del 2004, è una delle mie date-torre. Guardo il bambino che tengo in braccio: non è un neonato, è un bambino piccolo ma che già cammina, ha più di un anno direi, ma meno di tre, quindi deve essere stato nel 2006. Guardo come siamo vestiti, non sono vestiti estivi, sembrano più pesanti, ma non fa freddissimo nel ricordo. Decido che deve essere stato nell’autunno del 2006. E infatti, rivedendo poi le cartelle, scoprirò che è stato così.
E’ chiaro che orientarsi così non è facilissimo, e soprattutto è poco pratico per programmare il futuro. Non è un caso se si dice che chi non ha passato non ha nemmeno futuro… Quindi per quello mi sono attrezzata di planner agente e liste varie, e insisto moltissimo sul fatto di scrivere gli eventi salienti di ogni settimana in modo da avere, anche lì, dei punti di riferimento, le mie torri. Se ci pensate, non avere un senso chiaro del tempo in sequenza è anche uno dei motivi per cui molti autistici reagiscono male alla prospettiva del cambiamento, perché è difficile gestire qualcosa che si esprime su una dimensione, il tempo, con cui non hai dimestichezza. Cambia il programma di domani, o delle prossime due ore. Domani quando è? Due ore quanto sono? Prima ancora che il concetto di cambiamento, ti mette già in allarme la dimensione temporale, che è estranea e poco comprensibile. E poi c’è l’attesa, che diventa un deserto dei Tartari se non hai un senso chiaro del tempo in sequenza e della durata. L’Aspiebaby ha sempre avuto difficoltà con la dimensione temporale. Se siamo in attesa per qualcosa, il fatto di non riuscire proprio a quantificare, a farsi un’idea di quanto tempo passeremo un questa attesa (non tanto perché io non glie lo dico, posso anche dire “aspettiamo una mezz’ora” o “ci vorrà qualche giorno”, ma non ha il senso chiaro di quanto sia mezz’ora, di quanto sia qualche giorno) produce disagio e agitazione che gli altri non riescono a capire. Quindi per dire quando avverrà una cosa, io spiego sempre in modo esplicito aiutandomi con le dita di una mano: “oggi è lunedì, domani è martedì, poi mercoledì e giovedì. Giovedì arriva il pacco che stai aspettando”. Ecco, così riesce a visualizzare meglio. Ho notato poi che anche l*i ha iniziato a cercare le sue “torri” sul territorio: se sa che andremo in auto in un posto, mi chiede “ci vuole più o meno che ad andare a Roma?”, perché ormai dopo anni di viaggi ha un’idea più o meno, una sensazione di quanto ci voglia per arrivare a Roma in auto (cioè troppo per i suoi gusti). E la flessibilità cognitiva dell’Asperboy a fronte di imprevisti e cambiamenti ha iniziato a svilupparsi quando ha iniziato ad avere un migliore orientamento nel tempo e nello spazio.
Poi esiste la componente emotiva del ricordo, che scombina ulteriormente la percezione del tempo e della sua sequenza. Nel suo libro Paula, Isabel Allende racconta brevemente la storia dei genitori del marito di Paula. Di origini spagnole, sfuggiti al regime, naufragati e approdati fortunosamente su una spiaggia, si perdono di vista per settimane. Alla fine il marito ritrova la moglie, dopo estenuanti ricerche, ricoverata e quasi priva di memoria. La riconosce, si ritrovano, e assieme iniziano una vita nel nuovo paese. Lei recupera la memoria, ma in modo bizzarro, dice la Allende, e quasi come se fosse una scelta: dimentica le cose brutte del passato, e guarda solo al futuro. Quando l’ho letto mi sono detta: ecco, io funziono così. Ho questo strano senso del tempo. Il tempo passato so che è passato, ma in realtà c’è un passato che è sempre presente, ed un passato così lontano da sembrare accaduto a qualcun’altra, me lo sono perso per strada. E non in funzione della distanza temporale, ma della distanza “emotiva”, diciamo. In sostanza, si potrebbe dire che il tempo per me è spazio, uno spazio in cui mi trovo, e ci sono cose che sono lontanissime da me, cose vicinissime, e questo non dipende da quando sono accadute. Il mio tempo me lo immagino come quelle rappresentazioni del tempo nella relatività, si incurva in certi punti, è più denso. In altri è così rarefatto da non sembrare quasi più reale e accaduto. Gli eventi non sono lontani nel tempo o nello spazio, sono vicini o lontani secondo come la mia mente li processa. Potrebbe essere successo vent’anni fa, ma se non l’ho processato e superato è come se fosse successo ieri, potrebbe farmi male come ieri. Seriously.
Il tempo poi è anche circolare, per molti autistici, è un continuo ciclo di stagioni e punti fermi che si ripetono e ritornano. Ma ricomincia sempre, non va avanti come una freccia, le cose ritornano, ed è forse un altro aspetto di quella sameness, quella costanza o ricerca di costanza, che è così caratteristica dell’autismo da essere uno dei criteri diagnostici. Una struttura circolare, senza cambiamento o con minimo cambiamento, è più familiare e rassicurante. Più facile da usare, per noi.
Insomma, il tempo in cui ognuno di noi è immerso non è lo stesso, può essere cognitivamente molto diverso da persona a persona. E infine se volete sentire da un Aspie, lui sì veramente un alieno, qualcosa sul senso del tempo neurodiverso, guardatevi questa lezione del Doctor Who, il Dodicesimo Dottore:
Siccome con il mio post precedente qualcuno ha sentito la necessità di ritirare fuori la solita solfa che esiste il “vero” autismo docg e poi esiste il resto, che non è vero autismo si vede (cavolo, devo subito telefonare al nostro npi per dirgli che ha sbagliato la diagnosi a tutti qui!!), allora facciamo un piccolo riassunto della situazione:
Essere autistico è esattamente come essere incinta. Non esiste quella totalmente incinta e quella quasi incinta, quella incinta al 50% e quella incinta al 75%. Quando sei incinta, sei *tutta* incinta, fatevelo di’ da una che c’è passata. Non c’è manco una cellula di te che non sia incinta. Sob.
Poi ti può toccare la gravidanza con le nausee il primo trimestre e taaaaanta stanchezza, oppure ti può toccare il pacchetto Nightmare, con tutte le possibili complicanze di questo mondo. Ma sempre autist… cioè, incinta sei.
E comunque, gente, non è una gara, non si vince proprio niente. Anzi, si perde tutti, a fare queste classifiche e distinguo del menga. Solo più uniti possibile possiamo pensare di vincere qualcosa, tipo un’assistenza degna di questo nome e tarata sui bisogni di ciascuno.
Oppure: è così tranquillo, non sembra autistico. Oppure tout court: non sembra autistico.
Perché, come sembrano gli autistici? Mi sono persa qualche pagina del DSM in cui si specifica che la bruttezza è criterio diagnostico? O che lo è l’agitazione? O comunque in cui si dice che l’autismo ha una facies caratteristica, qualche segno patognomonico, qualcosa di visibile e fisico, che so, si illumina al buio?
Per fortuna, quanto sopra a volte viene proferito giusto prima di un prelievo di sangue, o di una passeggiata in ambiente rumoroso, o di una richiesta scolastica particolarmente ostica, o di un qualsiasi evento stressante in grado di far salire l’autismo a un autistico.
E così, un’ora e tre infermiere accorse dopo, o un’ora e dieci tentativi di buttarsi nei fossi dopo, o un’ora e qualche tentativo di menatte dopo, o un meltdown di quelli boni con stereotipie a palla dopo, potrete sorridere soavi come Gene Wilder e chiedere “Allora, adesso ti sembra autistico mio figlio?”
Alzarsi la mattina è dura per tutti. Per qualcuno, pure di più. E quel qualcuno spesso è autistico.
Come vi ho ripetuto ormai fino allo sfinimento, una persona neurodiversa è un po’ tutta neurodiversa. Cioè le diversità non si limitano a quella coppia di “aree” indicate dal DSM 5, l’area socio-comunicativa e l’area delle condotte ripetitive e interessi ristretti. Siccome è tutto il sistema nervoso ad essere autistico, e in fondo tutto l’organismo, ci sono delle differenze anche nel funzionamento neurovegetativo.
Quando si parla di sonno-veglia, dobbiamo tenere presente che il passaggio dall’uno all’altra è contrassegnato da una specie di cambio della guardia tra i due sistemi che assieme formano il sistema nervoso autonomo: quello ortosimpatico e quello parasimpatico. Il parasimpatico, che ci ha fatto rilassare (si spera) e mantenere dormienti durante la notte, passa le consegne all’ortosimpatico, che è quello che si occupa di tenere sveglia e attiva la baracca durante il giorno. Questi due gemelli diversi in realtà convivono nel nostro organismo esercitando la loro influenza in gradi diversi sui diversi sistemi, in determinati momenti predomina uno, in altri l’altro, armoniosamente. Il passaggio dal dominio dell’uno al dominio dell’altro è qualcosa che dovrebbe, nel migliore dei mondi possibili, avvenire in modo abbastanza rapido e scorrevole, senza grossi malesseri o scossoni. Nelle persone autistiche invece possono essere due gemelli piuttosto disorganizzati e umorali.
Quindi per molti autistici svegliarsi non è così scorrevole, anche perché è un cambiamento di stato, in fondo, e a noi i cambiamenti in generale non piacciono o ci richiedono un po’ più di sforzo. I due sistemi gemelli poi possono decidere di non alternarsi ordinatamente con un ritmo di 24 ore, appunto, ma di contendersi le ore come due fratelli la Playstation. Quindi non fila tutto liscio, esattamente come la tazza dell’Aspiebaby spiega in modo egregio. Il passaggio dal sonno alla veglia può richiedere un tempo molto più lungo del normale, essere caratterizzato da senso di malessere proprio fisico marcato, e da qui un senso di nervosismo. La sensorialità può essere ancora più accentuata, con fastidio enorme per luci, odori e suoni, anche minimi. Insomma se qualcuno pensa di far bene entrando in camera vostra e alzando rumorosamente le persiane con uno squillante buongiorno principessa!… quel qualcuno è un qualcuno morto. Tanto per spiegare cosa significhi in termini concreti “difficoltà a passare dallo stato di sonno e rilassamento a quello di veglia”, c’è chi la mattina si alza con la nausea pure se non è incint*. Per il solo fatto di essersi alzato. A me è capitato per un lungo periodo della mia vita: mi alzavo la mattina e dovevo correre in bagno in preda ai conati, con grande allarme del resto della famiglia. Ovviamente non avevo niente nello stomaco da vomitare, non ero malata, però ogni mattina la stessa storia. Tendo a pensare che fosse in particolare il nervo vago (parasimpatico), che non voleva mollare il joystick all’ortosimpatico, e quindi vai di vomito appena mi mettevo in stazione eretta e iniziavo a percepire il mondo…
Svegliare l’Asperboy è stato uno sport estremo per anni. Ci mettevo circa un’ora e mezza per riuscire a trasformare un piccolo grizzly in un ragazzino capace di intendere e di volere, e (forse) andare a scuola. Non è mica un caso se quasi tutti gli adattamenti di orario scolastico per i miei figli consistono nel farli entrare una o due ore dopo. Ancora oggi è veramente difficile per lui alzarsi la mattina, anche con tutti gli espedienti possibili (tempo, luce graduale, silenzio, qualcosa da mangiare per tirar su la glicemia etc.). Ovviamente ogni giorno la stessa routine, cerimoniosa che manco il risveglio del Re Sole. Siccome però siamo in diversi così in famiglia, la cosa non mi ha mai stupito più di tanto. E’ una forma di antipatica normalità, per me. Per quanto riguarda me, diciamo che ce la faccio meglio, ma preferisco alzarmi una o due ore prima di tutti gli altri, se posso, così ho tempo di fare colazione nel silenzio e da sola, oppure ascoltando la “mia musica”, con la mia routine personale. Se qualcuno mi parla intorno quando ancora sono nella fase di passaggio, o peggio mi tocca, diciamo che posso diventare antipatica. Lo sbattere di un piatto o lo strusciare di una sedia spostata, che normalmente mi infastidiscono, la mattina mi fanno proprio male. E anche se mi rendo conto del problema, e mi dispiace anche, non è che ci possa fare molto per non essere così. L’unica cosa che ci posso fare è appunto, alzarmi prima di tutti e starmene da sola a fare colazione e abituarmi gradualmente alla realtà, finché non sono in grado di partecipare di nuovo al consesso umano. E buongiorno, si spera.