Il dolore nella stanza accanto

Immaginate di essere in una stanza. E nella stanza accanto, a volte due stanze più in là, si sta svolgendo una brutta discussione. Voi sentite vagamente cosa sta succedendo, attraverso le pareti, potete forse cogliere dei frammenti, qualche parola attutita, ma non capite assolutamente cosa sta accadendo di là.
Soprattutto, non capite che stanno parlando di voi. Che in realtà, quella cosa sta accadendo a voi, anche se sembra nella stanza accanto.

Ecco, il dolore per me è esattamente questo: qualcosa che avviene in un’altra stanza di me. Una stanza dove io non ci sono, e a malapena riesco a capire che ci sta succedendo qualcosa. Ma sta succedendo, è quello il problema. Cioè la mia consapevolezza non arriva lì nella stanza, ma il dolore al mio corpo arriva tutto.

E’ difficile da spiegare e probabilmente anche più difficile da credere, ma ne ho già parlato: io posso diventare triste, nervosa, arrabbiata, posso avere dei cali cognitivi, posso ritirarmi dalla vita attiva, posso addirittura andare in quella che sembra a tutti gli effetti una depressione… solo perché in realtà ho dolore fisico. Ma non lo capisco, non lo identifico. Solo se alla fine mi curo, quasi magicamente inizio a stare meglio, molto meglio, meglio in maniere che non credevo più possibili, anzi che manco mi ricordavo fossero possibili, e allora realizzo che sì, evidentemente avevo dolore cronico. E non lo capivo.

Una sorta di alessitimia ma per il dolore. Chissà se esiste anche per questo un termine derivato dal greco, una bella parola elegante per una cosa decisamente brutta, in realtà.
Quando si dice che le persone autistiche con difficoltà di linguaggio e comunicazione possono avere dolore e non poterlo comunicare, e quindi manifestare dei cambiamenti comportamentali a volte drammatici in conseguenza del dolore, credo che sia solo una metà del problema. L’altra metà è che anche le persone autistiche senza problemi di linguaggio e comunicazione possono non comunicare che stanno male. Perché non lo capiscono loro per primi. Cioè: capiscono che c’è qualcosa che non va, ma non riescono a stimarne la portata. Come se vedessero solo la punta di un iceberg, ma tutto il resto dell’iceberg è sotto il pelo della coscienza.

E allora che si fa? Si fa quello che si fa con l’alessitimia vera e propria: si cerca di inferire la presenza di dolore, in questo caso, dalle manifestazioni. Si va a ritroso, seguendo gli indizi. Io ormai sto imparando a riconoscere i segni: abbassamenti o scatti di umore, ritiro sociale, irrequietezza, difficoltà sempre maggiori di concentrazione, fino appunto a simulare una depressione. Il dolore cronico è un nemico che si nasconde ma lascia tracce ovunque, e devo sospettarlo. Se mi distraggo per un po’, se sottovaluto i segni, mi frega un’altra volta. Devo stare sempre attenta.

Ma ecco, a me questa cosa spaventa, e molto. L’idea che ci si ritrovi con un corpo abitato dal dolore senza nemmeno rendersene conto. E che alcuni medici che ti curano ti guardino come ‘na pazza isterica se provi a spiegarglielo per essere aiutata.