Oltre Rainman: di cosa parliamo quando parliamo di autismo

Schermata 2018-12-21 alle 17.49.11

Se dico la parola autismo, a chi pensate? Molti, soprattutto quelli della mia età, penseranno a Rainman, cioè a Raymond, il bizzarro personaggio interpretato da Dustin Hoffman nel film omonimo (e che per colmo di ironia era ispirato principalmente ad un uomo, Kim Peek… che non era autistico, in realtà. Ma ok, diciamo che è autistico, perché per trent’anni è stato il volto dell’autismo per la cultura generale)
I più giovani probabilmente penseranno al protagonista di Atypical, oppure a The Good Doctor, il buon dottor Shaun, che sembra avviarsi ad una brillante carriera come chirurgo. Siamo lontani da Raymond di Rainman, è vero, ma l’impaccio di Shaun alle prese con i suoi colleghi e pazienti è evidentissimo.
Nessuno di voi penserà a me, che mi sento regolarmente dire “ma non sembri proprio autistica”. Eppure lo sono. Semplicemente, non corrispondo allo stereotipo. Ma ai criteri diagnostici sì, infatti ho una diagnosi. Solo, non ho carenze di empatia come vi aspettereste. Non ho grossi problemi con la teoria della mente. Non ho problemi a parlare, semmai il contrario, a stare zitta. Vi guardo anche negli occhi. Sono andata all’università. Ho una vita sociale, anzi  ho amici, mi sono innamorata, ho avuto fidanzati, mi sono persino sposata e oggi tiro su dei figli. Non sono la vostra poster girl per l’autismo, insomma. Ma sono autistica. Evidentemente, idee “popolari” dell’autismo e criteri diagnostici scientifici sono due cose piuttosto lontane tra loro.

Cosa abbiamo in comune io, Shaun, Sam, Raymond e gli altri? Come è possibile che persone apparentemente così diverse condividano la stessa condizione, un tempo considerata solo una gravissima patologia? Insomma qual è alla fine il succo della faccenda, i tratti base, “core” per utilizzare il termine inglese, quelli che tutti gli autistici devono avere per essere considerati autistici?

Se prendete in mano il DSM-5, cioè il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, nella sua quinta edizione, per cominciare troverete l’autismo definito come uno spettro di disturbi del neurosviluppo. Le parole chiave qui sono tre: Spettro. Neuro. Sviluppo. Ricordatevele, le riprenderemo più avanti.

Dunque, l’autismo è uno spettro di condizioni contraddistinte da due grandi aree di criteri diagnostici. I criteri per esteso li trovate qui, ma in sostanza sono riassumibili in:
1) un deficit della reciprocità sociale (quindi non solo il rispondere o iniziare una conversazione o una relazione sociale, ma anche mantenerla nel tempo come un rapporto di scambio reciproco) e nella comunicazione non verbale, cioè tutti quegli elementi di mimica, prossemica, prosodia e regole non scritte della comunicazione che fanno parte del linguaggio ma non sono verbali
2) la presenza di interessi ristretti e comportamenti ripetitivi, che possono andare dalle stereotipie di vario tipo a una sensorialità atipica, e una ricerca di costanza (sameness)

Tutto qui, direte voi? Sì, tutto qui. E io ce l’ho tutte eh. Se fate la lista dei criteri diagnostici, celo celo celo. Non me ne manca uno. Pure se “non sembro autistica”. Perché allora io e Raymond siamo così diversi pur restando entrambi autistici? Per due motivi, principalmente.

1) Perché i tratti autistici possono presentarsi con maggiore o minore espressività, chiamiamola così. La difficoltà a instaurare e mantenere dialoghi e relazioni di tipo sociale, per esempio, può essere più o meno marcata. Anche la tendenza alla sameness, alla ricerca di costanza, può manifestarsi in modi più o meno rigidi, partendo da una preferenza ancora governabile per arrivare ad una  inflessibile necessità di routine e costanza. Se io ho una lieve rigidità cognitiva, anche modulata da anni e anni di “allenamento”, per cui riesco ad adattarmi meglio a molti contesti ma non a tutti, i miei figli sono già più rigidi e infatti hanno più difficoltà in contesti sociali come la scuola, ed altri autistici possono essere  davvero molto rigidi. Il profilo sensoriale è un’altra area in cui potete trovare differenze enormi tra persone autistiche, da chi per esempio vive chiuso in camera con serrande abbassate e sopporta a malapena il contatto coi vestiti a chi invece è iposensibile e quindi ama il contatto fisico e i suoni, passando per chi ha moderate ipersensibilità e se la cava con un quotidiano malditesta a fine giornata. Chi ha grandi difficoltà in campo sociale ma quasi nessuna stereotipia motoria o vocale, e chi il contrario. Veramente, un’infinità di variabili. La vita è bella perché è varia.

2) Perché all’autismo possono o no associarsi altre condizioni o veri e propri disturbi e patologie, che però non sono “autismo”. Possono esserci o no. Si può essere autistici anche senza averli, non sono necessari per la diagnosi. Anche se sono questi poi a co-determinare il quadro complessivo, quando presenti, a volte in modo notevole. Il DSM-5 li considera non dei criteri diagnostici, ma degli specificatori della diagnosi, e ne citerò alcuni. Servono per avere un quadro più chiaro e preciso della situazione globale, perché è chiaro che se consideriamo uno spettro vasto di condizioni, dire “è autistico” ci dà pochissime informazioni precise sulla situazione specifica. Che tipo di autistico è?

La necessità di supporto e adattamento da parte dell’ambiente è uno degli specificatori, ed esprime quella che una volta veniva definita “gravità” del quadro. Si può andare da una necessità minima di supporto, quasi nulla, fino a necessità di supporto costante e significativo.
Poi ci sono i disturbi del linguaggio. Tutti gli autistici sviluppano un linguaggio ed una comunicazione non verbale come minimo atipici, ma quanto atipici poi bisogna vedere. Nel mio caso, la compromissione del linguaggio è talmente lieve da  risultare più in un’atipìa, appunto, una sfumatura di bizzarria, di comprensione letterale del linguaggio, di non immediata comprensione dei sottintesi e del non verbale del mio interlocutore, di predilezione per la ripetizione di frasi di film o canzoni per spiegarmi meglio… senza che questo però comprometta davvero la mia possibilità di comunicare efficacemente, quindi non ho un vero e proprio disturbo del linguaggio. All’estremo opposto dello spettro abbiamo persone che non producono alcun tipo di linguaggio verbale ed hanno anche difficoltà a comprenderlo. In mezzo, c’è di tutto.
La disabilità mentale: esistono autistici con grave disabilità mentale, autistici con un cognitivo nella norma, come si dice in termini clinici, e autistici con un quoziente intellettivo anche parecchio sopra la norma, QI di 150 e oltre. E’ chiaro che avere delle grandi risorse cognitive aiuta chiunque, quindi anche un autistico, ad adattarsi ed aggirare eventuali deficit in altre aree, sviluppando anche un buon adattamento complessivo all’ambiente, mentre una disabilità mentale renderà tutto più difficile per un autistico, che parte già da una posizione di atipicità del neurosviluppo in un mondo di persone per la maggior parte a sviluppo tipico.

Torniamo alle tre parole chiave di prima: qual è l’importanza di definire l’autismo uno spettro (assai ampio) di disturbi del neurosviluppo?

Per prima cosa, che si tratta di qualcosa che in nuce è presente fin dalla nascita, anzi da prima, quando appunto inizia il neurosviluppo (anche se può diventare evidente solo da un certo momento di questo sviluppo in poi, perché il livello di capacità richieste dall’ambiente diventa troppo alto per le possibilità di adattamento e compenso di quel bambino). Gli studi più recenti mostrano che in neonati poi diagnosticati anche anni dopo come autistici, sono già presenti nei primissimi mesi delle atipie nello sguardo, per esempio. I neonati autistici insomma esplorano (o non esplorano) e “vedono” già il mondo in modo diverso, fin dall’inizio. Da lì, da questa differenza iniziale, poi discende tutto. Addio, concetto di madre frigorifero che fa diventare autistico un bambino “nato sano”, e già che ci sei portati via pure i vaccini, non c’entrano nulla nemmeno quelli.
L’autismo poi è un disturbo del *neuro*sviluppo, cioè abbiamo già evidenze di vere e proprie differenze nella struttura del sistema nervoso, nel cablaggio diciamo, nelle impalcature di connessioni neuronali, e nel loro modo di funzionare. Il cervello autistico è diverso da quello neurotipico, questo lo sappiamo. Nasce diverso, vive diverso, muore diverso. Non si è neurotipici fallati o prigionieri di una malattia. Non si diventa neurotipici, mai. Bye bye anche al bambino nella bolla e alle fantasiose “terapie” che promettono “guarigioni” miracolistiche. Non ci mancherete nemmeno voi.

Invece, il concetto di disturbo del neurosviluppo è importante perché ci dice che anche quando questa condizione di autismo si manifesta in un quadro complessivo grave, questo è un quadro che si sviluppa nel tempo, esattamente come si sviluppa l’assetto di un cervello neurotipico. L’età evolutiva dura almeno fino ai 18 anni, e nulla è scritto nella pietra, soprattutto all’inizio. Anche se non conosciamo la causa prima dell’autismo, però possiamo cercare di capire i meccanismi di sviluppo nel tempo della condizione, come cerchiamo di capire quelli dello sviluppo neurotipico, e cercare di intercettare e modificare la traiettoria di questo sviluppo con i nostri interventi. In altre parole, lo sviluppo è modificabile perché sia il migliore possibile, perché si sviluppi l’intero potenziale (ed è un discorso generale, che vale per tutti gli individui, tipici e atipici). Perché mi pare plausibile che se un cervello autistico vede percepisce e apprende in modo diverso fin dall’inizio rispetto a un cervello neurotipico, il tipo di “nutrimento per la mente”  che gli va fornito non sarà proprio lo stesso. Una parte del problema nel neurosviluppo autistico, che è atipico, è proprio che di solito gli viene fornita invece fin dall’inizio una dieta sensoriale e di stimoli pensata per i bambini neurotipici. Può risultare indigeribile o non assimilabile, in parte o del tutto, e rendere ragione almeno in parte delle difficoltà di funzionamento e adattamento. E’ necessario comprendere meglio le modalità di percezione, apprendimento ed elaborazione della mente autistica per fornirle gli stimoli più adatti. E questo è un campo affascinante, perché esattamente come esistono vari “tipi di intelligenza” tra i neurotipici, da cui derivano diversi stili di apprendimento e funzionamento, così pure tra gli autistici. Dopo che per molti anni si è pensato che gli autistici fossero tutti pensatori visivi, e da qui l’utilizzo massiccio di immagini per la comunicazione e l’apprendimento, adesso sappiamo che non tutti gli autistici sono visuali o principalmente visuali nella loro percezione ed elaborazione del mondo. Si torna al discorso di spettro anche qui, in fondo. Uno spettro che poi non è solo uno spettro, secondo me, ma non voglio spoilerarvi troppo del prossimo spiegone…

Il punto importante comunque è che l’autismo in sé non è una sentenza scritta al momento della nascita e nemmeno della diagnosi, come si è pensato per troppo tempo, è una condizione che si sviluppa nel tempo, durante la crescita della persona, e in una certa misura anche dopo la fase di crescita, perché la neuroplasticità sappiamo che non finisce con la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, permane anche se in misura minore. E’ per questo che sono necessari protocolli di intervento di diversa intensità per diversi autismi, e devono essere accessibili a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Infine, che l’esistenza, anzi il riconoscimento dell’esistenza anche di persone come me, con capacità di cavarsela nella vita, anzi con punti di forza talvolta notevoli in alcuni settori, superiori alla media o alla norma, come autistiche, nello spettro, stabilisce una volta per tutte che l’autismo *di per sé* non è una patologia. E’ una condizione, che può presentarsi proprio come la neurotipicità in modi diversi. La disabilità cognitiva e i ritardi di linguaggio che gli si possono accompagnare non sono una caratteristica core dell’autismo, sono una caratteristica dell’essere umano, possono presentarsi tanto negli autistici quanto nei neurotipici. Il fatto che esistano neurotipici con disabilità mentale grave però non ha mai indotto nessuno a considerare la neurotipicità come una patologia né a cercare una cura per la neurotipicità in quanto tale, quindi si spera che si passi dal considerare l’autismo una patologia per cui va cercata una cura al vederlo come una variante dell’umano sviluppo, una atipicità, che va compresa e sostenuta perché possa svilupparsi al suo meglio, anche in presenza di disabilità cognitiva.

Think pink

Schermata 2018-12-18 alle 14.02.00

In questo periodo mi sono rimessa studiare e sono iscritta ad un master sull’argomento autismo. Ed è un master molto ben fatto, anche con un approccio decisamente all’avanguardia… per essere un approccio medico e neurotipico. Infatti, durante le lezioni, mi capita di dover ascoltare, tanto da alcuni docenti quanto da colleghi la solita sfilza di “patologia autistica, deficit di questo, assenza di quell’altro, incapacità di sopra, carenza di sotto”.
E’ faticoso, veramente, ogni tanto mi piglia pure male, mi alzerei per andare a sbollire in bagno l’irritazione, solo che da brava nerd autistica sono in prima fila, anche per evitare tutta l’interferenza visiva che avrei dalle file in fondo, quindi resto lì e recito ooommmmmmm dentro di me. Però ogni tanto qualcosa provo a buttarla lì, come intervento, per dare un indizietto che esiste anche altro, oltre alla tragggedia. Così capita che un docente chieda all’aula di fare qualche ipotesi sul perché soggetti che hanno un deficit della reciprocità socio-emotiva come gli autistici sviluppino anche una ricerca di costanza, delle condotte ripetitive, interessi ripetitivi, stereotipie motorie. E lì la nerd in prima fila (yours truly) alla fine alza il ditino e molla l’eresia: perché è bello, è stabilizzante, fa sentire bene.

Il docente chiede chiarimenti, dice che di solito il concetto viene espresso nel modo opposto, ipotizzando che si ricerchi la stabilità perché le interazioni sociali sono frustranti, definisce la mia uscita “una prospettiva interessante”, e siccome che so’ autistica e ste cose non le capisco bene, non so se sia un modo gentile di dire “‘ggesùggesù cosa mi tocca sentire”.  Comunque io resto perplessa, perché è evidente dalla sua sorpresa che una simile prospettiva non l’abbia mai incontrata, nemmeno lui che di autismo ne sa davvero tanto. E’ come se l’idea che in sé e per sé si possa trovare piacevole e appagante la costanza nelle cose, la simmetria, l’indagare in modo approfondito lo stesso argomento, rivedere sempre lo stesso panorama… sia astrusa, insolita. Sono cose che non meritano interesse?

Proviamo a rovesciare la domanda. Cos’è che i neurotipici trovano fottutamente bello nella novità? Perché se la vanno a cercare? Ve lo siete mai chiesto seriamente, in modo approfondito? Io scommetto di no. La propensione alla ricerca di novità pare innata nei neurotipici come negli autistici lo è quella alla ricerca di costanza, eppure nessuno la patologizza tanto.
E’ un po’ come se agli eterosessuali si chiedesse: ma invece di continuare a chiedere perché si è gay, e come è essere gay etc… ti sei mai chiesto perché tu sei etero? Pensaci, poi fammi sape’ eh.

(Personalmente credo che siano due istanze entrambe evolutivamente utili, la ricerca di novità e quella di costanza. La prima favorisce l’apprendimento di abilità nuove e quindi in ultima istanza può essere un vantaggio per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, la seconda favorisce la permanenza in cose sperimentate e sicure e… in ultima istanza può essere un vantaggio per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Diverse istanze, ma non una meno dell’altra, in teoria. L’evoluzione non conserva tratti inutili.)

Poco dopo scambio due parole con l’unico altro genitore presente, dicendo “faccio un po’ fatica oggi ad ascoltare, mettono tutto in chiave così patologizzante, ogni cosa diventa un tratto problematico, anche cose che per me non lo sono”. Lei, una madre come me, mi dice che ha avuto la stessa sensazione, che anche per lei l’autismo è anche altro.
Ecco, è una sensazione di spaesamento, di non riconoscersi nella descrizione che fanno, in fondo, anche di me e dei miei figli, visto che siamo autistici anche noi. E non si tratta semplicemente del fatto che loro, docenti e terapisti in genere, sono abituati ad avere a che fare con forme di autismo più problematiche della nostra. E’ che vedono solo un pezzo, o che tendono a dare interpretazioni neurotipico-centrate dei fenomeni. Noi che l’autismo lo viviamo quotidianamente e da dentro, non come pazienti che vedi passare ogni giorno in ambulatorio, sì, ma per un’ora o due al massimo ogni tanto, sappiamo che l’autismo in ogni caso è vita con tante sfaccettature, e come vita quotidiana c’è dentro tutto l’umano possibile. Non solo il problema, ma anche l’allegria, il piacere. Il fare le cose perché ti piacciono, non perché devi sfuggire a qualcosa di negativo. Gli autistici godono delle cose, come i neurotipici. Di cose diverse, magari, ma il piacere, il fare le cose per piacere, esistono anche per noi. Sennò ci saremmo autoestinti da un pezzo, credetemi. Non dovete mai, MAI dimenticarlo se lavorate con persone autistiche. Altrimenti continuerete a percepirci solo o soprattutto come agglomerati di deficit e condotte patologiche, non come persone intere, con una vita degna di essere vissuta (a modo suo, che non è il vostro magari), e trasmetterete questo, anche, alle famiglie ed alle persone stesse, e no, non è utile, anzi. Vi mancherà un pezzo enorme del quadro. Oltre che uno strumento prezioso per interagire.

Ma sul serio, continuo a chiedermelo, è così difficile da concepire?

Quiz time!

Schermata 2018-12-13 alle 10.20.29

Siamo verso la fine della mattinata, i figli sono a scuola, e mi squilla il telefono.
Ora, quando mi squilla il telefono mentre uno o entrambi i figli sono a scuola, a me piglia un colpo ormai. Ho passato gli ultimi due anni scolastici a sentirmi chiamare per andare a riprendere Asperboy a scuola o almeno a sedare una crisi. Nei giorni in cui Asperboy andava tranquillo, mi chiamavano da scuola dell’Aspiebaby. Anche se adesso le cose vanno infinitamente meglio, io ormai ho il riflesso condizionato. Come il cane di Pavlov salivava a sentire la campanella, io sudo freddo con la suoneria Huawei. Guardo il numero: è la docente di sostegno di Asperboy. Mi faccio coraggio e rispondo.
Dall’altra parte del telefono, la voce di un Asperboy disperato, che mi dice “mamma non riesco a smettere di premere il bottone, sono finito in un loop, cosa faccio?”. In sottofondo, sento un rumore e voci varie.
Passo indietro: Asperboy ha un bottone giocattolo come quello della foto, tipo quelli che si usano nei quiz televisivi, e che premuto si illumina e fa un suono. Oggi lo ha portato a scuola (parentesi: i miei figli portano spesso oggetti da casa a scuola, la mattina, è un modo per aiutarli nel passaggio, per uscire di casa insomma, che è sempre un momento delicato per loro). Capisco che deve essere successo qualcosa che lo ha fatto agitare, gli è partita la stereotipia di premere il bottone perché in qualche modo incanala l’agitazione lì, ma di certo in una classe durante le lezioni non è proprio il caso. Lui è disperato e in lacrime perché si rende perfettamente conto che è una cosa che disturba, e perché comunque non lo vuole fare, ma nello stato di stress in cui è qualcosa lo costringe. I suoi compagni di sicuro oscillano tra l’incredulità, il non sapere cosa fare, il desiderio di aiutarlo e il fastidio per il rumore. Hanno chiamato la professoressa di sostegno, e lei ha chiamato me.

E io mo’ che faccio?
Voi che fareste in una situazione del genere? Avete un ragazzino autistico in loop al telefono, e non serve a niente dirgli “smetti”. Think outside the box. In fondo alla pagina, la soluzione.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Gli ho detto “Amo’, togli le pile al bottone”.
Tolte le pile, finito il problema 😁 (per stavolta almeno, la prossima volta chissà se funzionerà).
Se non ci avevate proprio pensato tranquilli. Io ho 14 anni di training alle spalle, per riuscire a pensare in due secondi netti: togli le pile 😁 😁 😁

Ho visto cose che voi umani

figura

Cosa vedete nella figura qui sopra?
Da quel che ho capito, la maggioranza delle persone vede due ellissi che si incrociano attraversate da una linea centrale.
Io vedo due cerchi che si intersecano lungo un asse centrale, visti in assonometria. Come quelle decorazioni tridimensionali composte da due parti piatte che si incastrano una sull’altra in modo da essere, appunto, tridimensionali.

Ed è qui il punto: le persone autistiche tendenzialmente percepiscono il piano non come un piano, ma come uno spazio tridimensionale. Il piano puro tra l’altro è un’astrazione, e l’astrazione è qualcosa con cui l’autistico medio ha meno dimestichezza.
Io guardo il foglio con la figura, ed immediatamente la interpreto, la percepisco, come tridimensionale, come un oggetto dentro il foglio. Un po’ come quando andate al cinema in 3D e con gli occhiali speciali vedete le cose balzare fuori dallo schermo. Ecco, io è un po’ come se indossassi sempre quegli occhiali speciali. Ed è solo con un’operazione volontaria che posso appiattire la figura e descriverla come due ellissi che si incrociano con una linea (magari perché ormai, dopo aver frequentato elementari, medie, liceo e università, so che è quello che probabilmente ci si aspetta da me). A quel punto al massimo continuerò a vederla alternativamente in un modo o nell’altro, comunque non come una figura piana stabile. Appena mollo un attimo zac, quella si “ritira su” dal piano e ridiventa tridimensionale per me. Che credo sia l’inverso di quello che capita alla maggior parte dei neurotipici: loro vedono la figura piatta e poi se vogliono la “tirano su” dal piano e la vedono tridimensionale, a volte con un certo sforzo, a volte proprio manco così.

Mi capita spesso che le persone diano per scontato che vediamo tutti la stessa cosa. No, non è così. La percezione non è mero atto sensoriale, è un atto con cui il cervello interpreta e dà significato a quello che i sensi gli trasmettono. Vedo una serie di forme  geometriche e colore davanti a me, e dico “è una porta”. Vedo una serie di macchie di colore alla periferia del mio campo visivo e dico “ah, ecco la mia borsa”. E magari mi sono sbagliata, cioè ho interpretato male quello che l’occhio ha recepito e inviato al cervello, si tratta di un’altra borsa, eppure io ho davvero *visto* la mia borsa dove non c’era. Sono gli errori percettivi a dirci quanto di interpretazione c’è nella percezione. Noi eravamo convinti di vedere una cosa, abbiamo proprio visto una cosa nella nostra testa, e poi guardando meglio ci accorgiamo che è altro. E quindi è possibilissimo che ci siano modi diversi di vedere la stessa cosa, proprio percettivamente, se il sistema nervoso relativo alla percezione è organizzato e cablato in modo diverso – e noi sappiamo già che il sistema nervoso autistico lo è – e sarebbe utile riconoscerlo, e riconoscere a modi diversi la stessa dignità, invece che decidere che uno solo è quello giusto e gli altri sono sbagliati (utopia, lo so).

Il parole povere, io credo che la percezione degli autistici non sia semplicemente amplificata rispetto a quella neurotipica, cioè che sentiamo più suoni, vediamo più luce etc. Anche. Noi percepiamo non solo di più, ma anche diversamente.

Comunque. Questa differenza percettiva può portare a grossolani fraintendimenti scolastici, va da sé. Il bambino autistico guarda la figura e dice cosa percepisce, e per l’insegnante è sbagliato. Non è sbagliato, è una percezione diversa. Il bambino sa benissimo che non c’è un oggetto dentro il foglio, intendiamoci, come noi sappiamo benissimo al cinema che non c’è Legolas a 3 centimetri dal nostro naso pronto a scoccare una freccia, ma *lo vediamo*. E se ce lo chiedono lo diciamo, “vedo Legolas tridimensionale davanti a me”, nessuno di noi dice “percepisco una serie di immagini bidimensionali sfalsate a cui il mio cervello grazie ad occhiali speciali attribuisce il significato di tridimensionale”. Saremmo strani, se lo facessimo. E nessuno ci dice che sbagliamo, se diciamo che c’è Legolas. Dunque perché non accettare che un autistico possa avere questa tendenza a vedere le cose in 3D molto più di un neurotipico, pure senza occhiali speciali?

F95CGCBI8BGF8XC.LARGE

Alcuni concetti poi sono più complicati da capire per un autistico perché non basta renderli visuali, che ormai è una cosa che molti insegnanti danno per scontato fortunatamente, ma bisogna anche capire com’è la percezione visuale di quell’autistico, diversa da quella di un neurotipico, e adattare la rappresentazione di conseguenza. Deve essere insomma un visuale per autistici, che è diverso da un visuale per neurotipici (n.b. non tutti gli autistici poi sono pensatori visuali, ma una buona parte sì). E questo merita un discorso a parte, che rimando per ora.

Un’altra particolarità della percezione autistica è di vedere l’insieme e i dettagli assieme, in modo contemporaneo. Ho sentito dire spesso che gli autistici non abbiano percezione gestaltica. Dissento decisamente. Gli autistici percepiscono in modalità gestalt eccome. Io ho un’ottima percezione gestaltica, ad esempio, direi che ce l’ho diversa semmai da quella dei neurotipici. Io percepisco l’intero *e* i dettagli, assieme, laddove di solito i neurotipici vedono o l’intero o i dettagli, alternativamente.
Il problema dell’autistico non è tanto non percepire l’intero-gestalt, lo percepisce assieme ai dettagli, semmai è di restare ancorato al dettaglio, e di sovraccarico percettivo perché intero + tantissimi dettagli sono molte informazioni da processare, integrare ed utilizzare assieme. Ma la processazione, l’integrazione, la comprensione e l’utilizzo di quanto percepito (oltre che la sua comunicazione, altro fatto importante se parliamo di autistici a basso funzionamento), sono un insieme di funzioni cognitive *successive* alla percezione. Ed è lì che, io credo, conta anche quanto la persona sia ad alto o basso funzionamento. E vale anche per i neurotipici: la capacità di processare ed integrare quanto percepito è diversa in persone con funzioni cognitive integre o deficitarie. Non bisogna confondere insomma percezione (che viene prima, ed è tendenzialmente diversa tra neurotipici e autistici) e funzioni cognitive (che si applicano a quanto percepito, e sono le stesse per tutti, che poi siano integre o deficitarie è da vedere).

La capacità di percezione gestalt  degli autistici in generale c’è, è contemporanea a quella dei dettagli, e può anche essere superiore a quella dei neurotipici, e credo che questo sia evidente negli autistici ad alto funzionamento, cioè con cognitivo integro Tanto è vero che negli esercizi che implicano il riconoscimento di figure in nuvole di punti, o di parti di figure complesse, che è un classico esempio di percezione gestalt, io sono più veloce di qualunque neurotipico abbia incontrato finora. Io guardo il foglio, e “vedo” le figure, non i singoli punti o pezzi. Come se balzassero fuori dal foglio. Poi ufficialmente sarei io quella deficitaria, però…

Anche l’apprendimento degli autistici funziona in modo molto gestaltico: io prendo una nuvola di informazioni, e identifico all’interno il senso, i nessi logici, il significato che tiene insieme tutte quelle informazioni. Devo riuscire a farlo, o quell’argomento non riesco a capirlo. Non lo capisco come sommazione di informazioni, lo capisco solo come sistema con coerenza interna. Questo conferisce a quel materiale che di per sé sarebbe semplicemente una somma di dati e fatti un significato nuovo, che riesco a comprendere e apprezzare, ed è molto più della somma stessa dei dati e dei fatti. E’ un sistema con significato, una logica interna, dei legami, e l’apprendimento che ne faccio mi permette di usarlo in maniera efficiente e creativa.

Insomma, altro che carenza di gestalt…

Credits: per questo post ho un *enorme* debito di gestaltica gratitudine verso la mia amica D., che è tanto capace di comprendere le differenze di funzionamento delle persone autistiche e neurotipiche, quanto paziente nello spiegarle a chiunque abbia voglia di capire. Grazie.

Gestione separata

Schermata 2018-12-11 alle 17.12.11

Quando è nata l’Aspiebaby, Asperboy aveva cinque anni e mezzo. E’ stato subito ben chiaro che erano due creature molto diverse. E’ stato subito chiarissimo anche che tutte le strategie messe a punto con Asperboy, con Aspiebaby potevo mettermele in saccoccia, non servivano a niente o quasi. Uno dormiva 8 ore filate a una settimana di vita. L’altra urlava fino alle 3 di notte e toccava fare i turni passeggiando in corridoio con lei in braccio. Uno si calmava semplicemente con un abbraccio. L’altra se provavi ad abbracciarla si divincolava come una belva. Uno mandava giù biberon senza discutere, l’altra solo tetta fino a 9 mesi. Uno detestava i pannolini ed era praticamente spannolinato a un anno, l’altra è arrivata all’età dell’asilo beatamente pannolata. E crescendo hanno continuato ad essere molto diversi. Tanto uno era una creatura silenziosa e schiva, tanto l’altra era rumorosa ed estroversa. Insomma, tutto da rifare. Uno si svegliava a malfatica e inverso dopo mille caute chiamate, l’altra sorgeva sorridente e da sola alle 6 di mattina. Anche la domenica. Uno mostrava fastidio per i rumori fin da piccolissimo, l’altra li produceva, i rumori, con allegra incoscienza. Uno rispondeva sempre NO di default, l’altra incredibilmente (incredibilmente per noi) ubbidiva alla prima. E sono tutti e due autistici, alla fine.

L’unica certezza che mi era rimasta dalla prima esperienza, era che se avevo trovato il modo di gestire uno, alla fine avrei trovato il modo anche per l’altra. Non doveva essere così impossibile. Bastava solo non darsi per vinta.

E così infatti è stato, ma la differenza di carattere, di profilo sensoriale tra i due, ha fatto sì che ci fossero più di un problema di convivenza e soprattutto più di un problema a gestirli assieme. Come mi ha ricordato un amico che ha due figli, uno adhd e uno asperger, tenerli assieme può essere come tenere la TNT accanto a un cerino. Più che un divide et impera, diventa un divide et sopravvivi. Lì ho capito perché per fare i figli dicono che bisogna essere in due, perché se non hai qualcuno con cui darti il cambio e dividerti la torta, tutto diventa più difficile. A volte facciamo persino gite o vacanze separati, mio marito ed io, ciascuno con un pargolo, perché sono molto più gestibili così, e si divertono di più. Hanno esigenze non compatibili per molti versi, per la differenza di età ma soprattutto di funzionamento.

Una caratteristica interessante dei magnifici due è la differenza di gestione in caso di crisi. Nessuno dei due può essere lasciato “a sfogarsi, tanto gli passa”, in caso di crisi. Anche solo perché la sofferenza emotiva che provano è veramente forte, e non si può chiedere ad un bambino di sopportarla senza aiuto per troppo tempo. Non è solo che costruirsi gli strumenti per gestire le emozioni è più complesso per loro. L’emotività autistica è molto forte, e la traccia che queste emozioni lasciano nella psiche anche, quindi alla lunga c’è veramente un danno psicologico che si stratifica. Bisogna intervenire.

Con Asperboy, bisogna mantenere la calma, non farsi travolgere dal suo pessimismo cosmico e dal vulcano in eruzione, e proporre nel modo più tranquillo possibile soluzioni. Con un lieve sorriso, magari, insomma faccia da poker. A lui fa bene vedere che la persona che gli sta vicino vuole aiutarlo ma allo stesso tempo è un appoggio sicuro, che non si fa travolgere, una “roccia” in mezzo alla tempesta. Allora riesce ad attraversare quella tempesta e approdare in porto senza troppi danni. Non me lo ha mai detto esplicitamente, ci sono dovuta arrivare attraverso prove ed errori. Al massimo, ogni taaaaanto, un preziosissimo “mamma meno male che ci sei tu” passata la buriana, che vale quanto una medaglia.

Con Aspiebaby, la storia è diversa. Non apprezza la compostezza buddhica di sua madre, la faccia da poker frutto di anni e anni di allenamento. Anzi, questo la getta ancora più nello sconforto. Per usare le sue precise parole gridate durante una crisi “mamma, quando io ho paura, se gli altri non hanno paura io peggioro!”. Tradotto: se vedo che gli altri non condividono in qualche modo la mia emozione, non la riconoscono come giustificata, questo mi fa sentire peggio. In altre parole, lei vuole empatia di quella buona. Mi ha ricordato una cosa letta molti anni fa, nell’autobiografia di Lalla Romano. Scriveva, la Romano, che da piccola provava dei terrori inspiegabili e fortissimi, e che gli adulti attorno a lei che non si spaventavano e le dicevano di stare tranquilla, che non c’era niente di cui aver paura, aumentavano solo il suo terrore, perché si sentiva circondata da persone che non capivano il pericolo che, lei era sicura, c’era. Così quando l’Aspiebaby ha cercato di spiegarmi cosa provava, ho ricollegato ed ho capito. Sia lei, che Lalla Romano. Non potevo dirle che quello che faceva piangere lei faceva piangere anche me, non sarebbe stato vero. Le ho detto però che vederla stare male mi faceva sentire impotente, e questo sì, mi faceva male. Che cercavo di restare calma perché con suo fratello questo funziona, ma che comunque non è che fossi proprio tranquilla e beata. E ho cercato di metterci un po’ di trasporto, in tutto questo discorso. Lei mi ha guardato un attimo e poi mi ha detto “Ok, adesso andiamo a fare quella ghirlanda che dicevi prima?”. Lei ha questi cambiamenti repentini, queste risoluzioni istantanee, se trovi il pulsante giusto.
E poi mi ha detto “Dobbiamo ricordarci di essere sempre sincere l’una con l’altra. La sincerità funziona”.
Ok tesoro, me lo segno. Con te, funziona così. Non era proprio intuitivo eh. Però meno male che almeno te me le spieghi, che con il tu’ fratello ho dovuto capire tutto da sola…

We wish you a Aspie Christmas

upside-down-christmas-tree-wayfair-1217_sq

Natale s’avvicina a larghe falcate, e qui siamo pronti ad accoglierlo. Alla nostra maniera però.

Le famiglie come la nostra ci provano pure a festeggiare il Natale come tutti, ma a volte non è festeggiare, è più tentare di arrivare in fondo senza troppi incidenti. E ogni anno sembra peggio, come un videogioco in cui sali di livello. Quindi a un certo punto ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: ma che ce l’ha ordinato il dottore di fare come fanno tutti? No vero? E allora daje, facciamoci un Natale su misura, dove ci stiamo bene dentro. O almeno arriviamo dall’altra parte interi.

Ed ecco in quattro punti il Natale a casa Aspie Airlines:

  1. I regali. I miei figli essendo autistici vivono con un certo stress le sorprese. “Un certo stress” è un delicato eufemismo. Due anni fa ho passato la notte di Natale al Bambin Gesù, letteralmente, che non significa in un presepe vivente, ma al pronto soccorso dell’ospedale pediatrico di Roma. Perché qualcuno si aspettava dei regali, e ne sono arrivati altri. Dopo un’ora di meltdown disperato davanti ai parenti sbigottiti e preoccupati, abbiamo trasferito questa bella celebrazione dello spirito natalizio altrove. Lì mentre aspettavamo il nostro turno di visita abbiamo deciso di abolire definitivamente l’elemento sorpresa dei nostri regali, per la serenità di tutti. Adesso i miei figli mi fanno una lista di cose che gli piacerebbero, lista che viene chiusa rigorosamente entro una certa data, ed io mi preoccupo di fare in modo che i regali fondamentali ci siano sotto l’albero. Se almeno un certo numero di regali sono quelli previsti, poi eventuali regali non previsti possono andare. Non annulla l’ansia, ma aiuta a controllarla. Bisogna però ricordarsi di insegnare agli Aspie-pargoli che si ringrazia per i regali, si sorride e si mostra cortese gradimento in tutti i casi. Questo è uno dei momenti in cui la brutale sincerità Asperger è meglio tenersela in saccoccia. Nel caso, Benedict Cumberbatch è pronto a venirvi in soccorso con alcune delle migliori tecniche per fingere di apprezzare un regalo che per voi è orribile.
  2. I regali 2. Ritrovarmi in mezzo al macello natalizio della corsa agli ultimi regali per me è improponibile. Folla, fretta, ansia di non trovare le cose, di scontentare qualcuno, di dimenticarsi qualcuno! sovrapporsi di impegni, frustrazione se non riesco a fare tutto come vorrei. Mi vien male solo a pensarci. Io i regali li compro con calma a Ottobre, in massima parte, qualcosa a Novembre, gli ultimi due o tre entro la metà di Dicembre. E quasi tutti online. Poi mi limito a passeggiare lieta e risplendente di spirito natalizio tra le vetrine del centro, ammirando le decorazioni e le lucine che mettono allegria, guardando l’umanità che si affolla e si pigia nei negozi e pensando placidamente “cazzi loro”. Altro che Grinch.
  3. Le riunioni familiari. Questo forse è il tasto più dolente, perché entrano in gioco i sentimenti altrui. Noi autistici i sentimenti altrui non è che non li capiamo, è che a volte purtroppo cozzano contro il nostro modo di essere. Gli assembramenti familiari sono difficili da affrontare e gestire per un autistico, per un autistico bambino molto di più. Ci sono tante persone, di solito, troppe, non tutte molto familiari o gradite. Molte voci, molte conversazioni, gente che cerca di abbracciarti o vuole un bacino da te, un ambiente che spesso non è quello familiare, odori e sapori insoliti, pranzi o cene che durano ore, a volte un viaggio di andata e uno di ritorno, comunque tante cose stressanti insieme. E dopo anni di stress crescente e di feste passate con una almeno delle creature barricata in macchina per tutta la durata del pranzo o in una stanza al piano superiore, abbiamo deciso che il giorno di Natale, già delicato di per sé per via dell’apertura degli attesi regali, noi lo passiamo a casa nostra. In pigiama, pantofole a renna e cappello da elfo coi campanellini in testa, mangiando pandoro e scartando i regali. Poi in giorni più tranquilli, durante le vacanze natalizie, quando la frenesia festereccia si è calmata andiamo a trovare un po’ di famiglia o amici, in visite separate e più tranquille, per chi se la sente. Non si forza più nessuno a fare cose che lo farebbero star male. Sennò che razza di Natale è, scusate?
  4. I programmi. Le feste natalizie, come tutte le interruzioni della normale routine quotidiana, sono un periodo delicato per gli autistici. La scuola è chiusa, i bambini tendono a fare tardi la sera e perdere il ritmo del sonno, ad annoiarsi senza il tran tran scuola casa attività settimanali, e possono uscirne fuori lamentosità, capricci, vere e proprie crisi. E soprattutto la ripresa delle attività dopo la fine delle feste può essere dura. Quindi un minimo di programmazione di cosa fare bisogna averla, una lista di attività e uscite in modo da avere qualcosa tutti i giorni da fare, e cercare di mantenere un minimo di ritmi regolari di pasti e sonno. Lo so che uno vorrebbe rilassarsi del tutto, non pensare, mollare e recuperare qualche mese di sonno (io di sicuro lo vorrei!) ma un minimo cerchiamo di farlo. Sennò ce ne pentiamo dopo la Befana, più che dei chili presi.

Non è difficile ritagliarsi un Natale su misura e non troppo stressante. L’importante è tenere bene in mente che le regole e le tradizioni sono fatte per noi, e non il contrario. Quindi possiamo adattarle, o cambiarle, in base alle nostre reali esigenze, se non ci rispecchiano o non ci rispettano. Le persone autistiche tendono ad avere bisogno di regole con una base razionale, un senso logico, non per convenzione o perché “si è sempre fatto così”. Se una cosa mi fa star male, è chiaro che non è razionale continuare a farla. Chi ci vuole bene capirà e se ne farà una ragione. Gli altri, prometto che nella prossima vita li accontenterò. Forse. In questa mi spiace, ma vorrei pensare un po’ a me. E insegnare anche ai miei figli a farlo.

Barocco emozionale

caserta

Questo che segue è un secondo spiegone sul tema dell’empatia emotiva già trattato nel post precendente

Come spiegavo, gli autistici soffrono spesso (sì, in questo caso ci sta bene “soffrono”) di iperempatia emotiva. Ora, l’empatia emotiva è diversa da quella cognitiva, e qualcuno giustamente faceva notare che considerarle assieme e chiamarle con lo stesso nome non è molto corretto (e produce scempi accademici come le teorie di Baron Cohen sull’empatia zero degli autistici di cui parlavo prima). L’empatia cognitiva è la capacità di comprendere le motivazioni e le emozioni di chi abbiamo di fronte, di spiegarci i suoi comportamenti. E questo per gli autistici può essere difficile perché, per una serie di motivi, non hanno fin da piccoli lo stesso bagaglio di addestramento sociale dei neurotipici. Esiste poi l’empatia emotiva che consiste nel sentire in qualche modo l’emozione della persona vicino a noi, e di questa ne abbiamo a pacchi, siamo spugne emotive. Lo vediamo soprattutto, come raccontavo nell’altro post, quando la persona vicino a noi manifesta rabbia o dolore, ci sentiamo investiti da queste onde emotive, diventiamo inquieti, siamo a disagio, possiamo diventare tristi, arrabbiati, agitati, come minimo irritati. Anche se la cosa non ci riguarda affatto.

Vale lo stesso se ci parlano con un tono di voce particolarmente carico di emotività, per esempio se veniamo rimproverati con tono sarcastico, o arrabbiato. Una delle prime cose che ho notato in lei e che mi hanno fatto capire che anche mia figlia minore è autistica è la sua estrema sensibilità al tono della voce. Se la rimprovero con un tono arrabbiato e concitato, il viso di  Aspiebaby si accartoccia con una smorfia di dolore. Le spuntano i lacrimoni. Inizia a singhiozzare sommessamente perché la invade una tristezza enorme per le sue spalle di bambina. Non significa che non posso rimproverarla se è necessario, ma so che devo fare attenzione a come le dico le cose, a quel che trasmetto con il tono e l’atteggiamento. Non devo esagerare.

Quindi, penserete, visto che siamo spugne emotive, dovrebbe piacerci un sacco stare con persone allegrissime. Ahem, no, non funziona proprio così, la cosa è più complessa. Certo, è ovvio che anche per me è decisamente meglio stare con una persona allegra che con una persona arrabbiata, su questo non ci piove. Ma quello che molti autistici trovano disturbante in realtà è l’eccesso di emozioni. Anche positive, paradossalmente. Si può avere troppo di una bella cosa? Pare di sì. Perché si tratta comunque di qualcosa che destabilizza un equilibrio di stato d’animo, e gli autistici fanno più fatica con la gestione delle emozioni, di qualunque tipo. Non è che non ne abbiamo, come spesso si pensa, tutt’altro, è che possono essere troppo intense e difficili da governare per noi. Per questo, credo, molti autistici adulti istintivamente cercano di mantenere una “dieta” emotiva parca e bilanciata, evitando gli eccessi. Non è esattamente una “freddezza” naturale, come verrebbe da pensare, piuttosto una necessità appresa, un’igiene di vita.
Una persona che parla con un tono di voce particolarmente squillante ed entusiasta può sbilanciarci quasi quanto una che parla in modo triste e lamentoso. Mio marito si chiede perché quando entra in camera di nostro figlio la mattina cercando di mostrarsi positivo ed entusiasta ed esordisce con uno squillante BUONGIORNO!, la risposta del creaturo è tutto meno che entusiasta e positiva. Anzi, rasenta l’istinto omicida. Io cerco di spiegargli sempre che con i nostri figli bisogna parlare con un tono di voce calmo e regolare, che tu debba dirgli buongiorno o mortaccituamistaimandandoalmanicomio o tesorobellodemammatua, perché sennò disregolano pure peggio, ma vedo che per un neurotipico è difficile da capire, istintivamente esprime emozioni con la mimica ed il tono della voce. E’ una cosa normalissima, ma può creare equivoci. “Ma cosa ho detto di male???” chiede il neurotipico di turno. Niente, non è cosa, è come lo hai detto…

Perché l’autistico ha problemi con la regolazione emotiva, ed anche un’emozione positiva ma forte può destabilizzare. Una mia cara amica piange dopo una bellissima giornata, perché anche la felicità è faticosa. L’Asperboy e l’Aspiebaby mi hanno abituata al fatto che dopo un pomeriggio di cose belle hanno bisogno di stare da soli e in silenzio, a fare le loro cose, per ritrovare l’equilibrio. Se non glie lo permetto, rischio di ritrovarmi con un meltdown da gestire. Io ho notato che dopo una o due giornate impegnative, anche positive, posso diventare triste senza motivo apparente e devo riposare lontano da stimoli emotivi e sociali sia in senso negativo che positivo. Basta saperlo, alla fine, ed accettarlo come una parte della nostra vita da gestire. Funzioniamo così.

La musica romantica guarda caso non mi è mai piaciuta. Troppa emotività esibita, troppo imprevedibile. Lo sturm and drang non fa per me. Per fortuna sono cresciuta studiando e suonando musica barocca, e quella per me è la perfezione dell’emozione in musica: misurata, sempre contenuta e regolare, mai, mai eccessiva. Sempre inscritta in una forma armoniosa, definita e sicura… compiuta. Insomma la perfetta rappresentazione del benessere emotivo, per me. E le mie emozioni le vorrei così, come una cantata di Bach, come una Musica per i Reali Fuochi d’artificio di Haendel, come un Largo di Vivaldi. E vorrei fossero così anche quelle di chi mi sta vicino. Please.

Empatia grado infinito

hqdefault (1)

Quel simpaticone entusiasta di Simon Baron Cohen, che ogni tanto tira fuori una teoria sull’autismo che poi viene regolarmente smentita dopo aver fatto danni per qualche anno, ha scritto anni fa un libro intitolato “Zero gradi di empatia”*. In questo libro esaminava le psicopatologie la cui caratteristica è la mancanza di empatia, appunto, e metteva nel mucchio oltre a psicopatici e narcisisti anche gli autistici.
Ma grazie, Simon. Cosa t’eri calato, per dire una sciocchezza simile? Che adesso la vulgata diffusa in tutto l’orbe vede gli autistici come persone con gravi carenze di empatia, e già abbiamo problemi di socializzazione per conto nostro, così ce seghi proprio le gambe… dicendo una cosa tutto sommato falsa, oltretutto.

Perché uno dei problemi delle persone autistiche in generale è che non hanno empatia zero, hanno più spesso iper-empatia emotiva (che è diversa da quella cognitiva). Esatto, ne hanno più della media. Oh che bella cosa, penserete. Be’, insomma. Questo non ci rende pikkoli anceli carini e coccolosi, questo ci rende delle persone sull’orlo della crisi di nervi a volte. E’ come vivere senza pelle. Come essere delle spugne emotive. Assorbiamo l’emozione altrui, soprattutto quelle dolorose, tossiche e negative (grazie, amigdala cara). Io ho una grande difficoltà a stare nella stessa stanza con una persona che sta dando in escandescenze, o sta piangendo. Percepisco la sua emozione come se mi stesse vomitando addosso dolore. Sono anche ipersensibile al tono della voce delle persone. Se una persona si rivolge a me con un tono arrabbiato, o concitato, emotivamente sopra le righe… mi fa star male. Reagisco male, anche. La persona non capisce, di solito. Non le sembra di aver detto o fatto qualcosa di male, magari, mi dice, non ce l’ha con me. Ok, non ce l’hai con me, ma mi stai investendo di emozioni negative. Ed io le sento, non ho difese, sono come tossine emotive per il mio sistema. Non riesco a capire perché non possa contenere in sé le proprie emozioni senza spammarle addosso al prossimo. Considero la mancanza di autocontrollo emotivo una forma di maleducazione. Il galateo dovrebbe prevedere l’obbligo di non ruttare, non sputare, non buttare cartacce per terra e non rovesciare addosso al prossimo i propri problemi, ecchecavolo.

Avete presente quel fenomeno per cui quando si mettono due specchi uno di fronte all’altro, questi si rifletteranno a vicenda fino all’infinito? Ecco, è un’immagine che spiega cosa succede quando mettete una di fronte all’altra due persone autistiche ed una delle due è agitata, in crisi o va proprio in meltdown per motivi suoi. L’altra verrà destabilizzata almeno un po’ dall’aggressione di emozioni. Potrebbe manifestare irritazione, rabbia, frustrazione, tristezza. E a sua volta questo farà stare ancora peggio la prima. E così via. A volte, insomma, si finisce in un loop dove ci si rimpalla la sofferenza, la rabbia e il non riuscire a uscirne. Finisce solo quando si è esausti, o qualcosa interrompe il circolo vizioso. E in questa casa di persone autistiche ce ne sono tre.

Io ho dovuto mettere insieme risorse enormi di autocontrollo, per riuscire ad aiutare i miei figli quando hanno le loro crisi comportamentali o meltdown. Tecnicamente sono la persona più adatta per farlo: sono la madre e li conosco come nessun altro, sono autistica e li capisco molto bene. Oltre a questo, semplicemente non c’è nessun altro a farlo di solito, quindi so’ cavoli miei il 99% delle volte e pace. Lo faccio, lo faccio molto bene di solito. Però questo avviene a un prezzo molto alto per me, proprio perché sono autistica. Prezzo emotivo e poi fisico. Il particolare tono stridulo di voce che assumono i bambini quando sono in crisi, la lamentosità, il volume della voce, sono cose che mi entrano nella testa come un trapano. In situazioni del genere, un autistico di solito si copre le orecchie, e se può scappa proprio. Io non posso, ovvio. Faccio appello all’autocontrollo e tengo a bada Erode, mentre cerco le soluzioni per far finire prima possibile la crisi. Se l’autocontrollo mostra le crepe il mio stress in queste situazione diventa visibile e allarma ancora di più i miei figli, li fa stare male perché sono spugnette emotive anche loro. Diventa un loop, appunto. Dovrei mantenermi in buona salute e con scorte di energia per fronteggiare tutte le situazioni, e non sempre ci riesco. Non c’ho più vent’anni, e ho pure qualche acciacco. Allora può succedere che alla fine abbia un meltdown anche io. Oppure che vada in shutdown, non vorrei parlare, non vorrei nemmeno muovermi, non ce la faccio a sopportare oltre, ho bisogno di buio silenzio e sonno, insomma non sono certo di grande aiuto. Mentre lo faccio, il senso di colpa verso di loro e di fallimento sono forti, anche se razionalmente so che sono situazioni in cui la maggior parte delle persone non reggerebbero manco la metà di quanto reggo io. Alla fine ce la facciamo, ne usciamo in qualche modo, con qualche aiuto, con qualche ammaccatura dell’anima, ma non è una bella situazione, e vorrei tanto avere uno o due cloni a disposizione, uno per occuparsi del bucato, l’altro per assorbire gli tsunami emotivi che mi toccano. E io intanto sferruzzo e mangio cioccolata per riprendermi, ed essere la madre carina e coccolosa che serve ai miei figli.

Quindi Simon caro, se vuoi farti perdonare le stronzate che hai scritto sull’empatia zero degli autistici, vieni a farti un giro qui con i miei figli quando c’hanno la luna storta, mentre io ripiglio fiato. Poi me racconti.

*che poi in italiano è stato tradotto come “La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà”. Wow, Simon, ti assumiamo come PR del mondo autistico, davvero. Quanto vuoi per tacere?

La collezione di figure di merda

2obbmb

Oggi l’Asperboy è tornato a casa piuttosto agitato perché ha fatto, secondo lui, una figura tremenda a scuola. Era veramente sconvolto, non riusciva ad uscire dal loop di agitazione.

Amo’, volevo dirgli, tu sapessi che collezione di figure di mmerda ha messo insieme negli anni tua madre, prima di capire un po’ come funzionano le cose in questo mondo, cosa non dire, non fare… e lo stesso ogni tanto mi distraggo e ci ricasco. Alla fine è per quello che sono una persona tranquilla e silenziosa, perché ho capito molto presto che meno mi muovevo e dicevo, meno mi cacciavo nei guai. Non sono timida o distante, in realtà, sono imbranata, consapevolmente imbranata, e quindi prudente..

Una buona parte delle figure di merda deriva dal non capire come funziona il non detto, il sottinteso, il dato-per-scontato, dei rapporti sociali. La maggior parte delle interazioni di gioco, sociali, si basa su regole non scritte, non esplicite, che nessuno ha mai spiegato ma si imparano sul campo. E così da autistico continui a rompere regole non scritte perché mentre i tuoi compagnetti neurotipici fin da piccini hanno imparato a cogliere al volo dagli esempi attorno a loro queste regole e farle proprie, tu un po’ perché hai meno connessioni dedicate al sociale, un po’ perché te ne stai spesso per conto tuo e ti interessano più altre cose, un po’ perché i concetti appresi in una situazione li generalizzi con difficoltà ad altre, mettici pure che non hai tutta l’elasticità per adattare le regole alle situazioni e capire  che esistono le eccezioni, alla fine non hai avuto lo stesso addestramento. E quindi quando ti relazioni con gli altri pesti merde ogni due passi.

Esempio pratico: il problema di Asperboy oggi è stato che parlando con una compagna ha usato la parola cancro in un commento che voleva essere scherzoso (stava tentando di fare il neurotipico che scherza, grosso errore…). E’ stato vivacemente ripreso, con ottime intenzioni ovvio, ma ci è rimasto male lo stesso. Cancro è una parola tabù, non si dice, meno che mai per scherzare, ancora meno riferita all’interlocutore. Ed anche se se ne parla seriamente, al massimo si dice “un brutto male”, o “un male punto bello”, ma le persone possinostianta’ se dicono proprio cancro. In America la chiamano “the C word”, la parola che inizia con la C, per sottolineare che è un tabù. Io ricordo che da ragazza in caso di lutti di fronte al vago accenno a un “brutto male” accompagnato da sguardo sfuggente e cambio di discorso insistevo a chiedere come una deficiente “Sì, ma esattamente perché è morto questo?”. E tutti mi guardavano inorriditi.
Insomma cancro è una parola nefasta, una parola che non va pronunciata. Tutti in società lo sanno quasi istintivamente. Tranne mio figlio, a cui ho dovuto spiegarlo esplicitamente, dopo averlo capito pure io a suo tempo. Gli ho spiegato  tutta la questione della superstizione, della scaramanzia, dell’esorcizzazione della paura e del dolore, concetti che devono essergli sembrati marziani ma vabbe’, alla fine ce l’ho fatta (credo). Ci avete mai fatto caso a come è difficile spiegare queste cose? Sono concetti complicati, se devi esplicitarli. Non sono cose fatte per essere spiegate, meno che mai messe in discussione, ma per essere imparate vivendole e usate senza pensarci tanto sopra.

La cosa si complica perché poi ci sono parole che sono considerate con leggerezza nella società, e invece sono urticanti per un autistico, per motivi di “mentalità autistica”, diciamo. Mio figlio per esempio non sopporta l’uso disinvolto della parola “frocio” da parte dei suoi compagni di classe. Non è solo una questione di sentirsi toccati personalmente, è che lui è in grado di capire che è un insulto, mentre cancro non è un insulto. Ma frocio in classe si può dire a un compagno, a quanto pare, scherzando, cancro no, se lo dici qualcuno ti dirà con sguardo inorridito “non si fa!”. Questo non ha alcuna logica (almeno per la mentalità autistica). Ve lo direbbe alzando il sopracciglio il signor Spock, questo meraviglioso esempio di Asperger ante litteram, mentre il suo amico dottor Bones, che invece è evidentemente neurotipico, tenta di spiegargli le regole sociali per cui invece è così. Senza riuscirci, di solito. Figuratevi come riesco a spiegarle io ai miei figli, che manco so’ neurotipica. A volte con i miei pargoli dopo aver tentato di spiegare quello che sono riuscita a capire della mentalità sociale mi ritrovo a concludere così: amo’, è così che funziona, non ti fare troppe domande… è una convenzione sociale non opzionale, insomma è così e basta.

Cioè come in questo brano di The Big Bang Theory dove è perfettamente illustrato lo scontro tra mentalità Aspie dura e pura, tradizioni sociali neurotipiche, con la risoluzione finale che “si fa così. E basta”.

Semplifichiamoci la vita, ok?

complications-simple

Una delle conseguenze della popolarizzazione della psicologia, oltre al fatto che Riza Psicosomatica lo troviamo pure dal parrucchiere, è che si tende a trovare una spiegazione pisssicologica per tutti i comportamenti o quasi. Anche quando non c’è.

Il che, se siete alle prese con un autistico, può essere un grave errore e portarvi del tutto fuori strada. Ai prof dei miei figli io lo dico proprio chiaro: non vi complicate la vita. Non cercate tante spiegazioni psicologiche. La realtà dietro certi comportamenti è molto più semplice e terra terra di quello che pensiate: sono spesso problemi sensoriali, o di percezione, in sostanza di sovraccarico. Sic et simpliciter. Trattateli come tali e nessuno si farà male.

Mio figlio non rifiuta di andare a scuola perché da piccolo non l’ho fatto dormire da subito nel lettino, lui adora andare a scuola e imparare, è che la scuola è anche un posto rumoroso. Affollato di adolescenti. Pieno di luci al neon. Insomma un luogo sensorialmente faticosissimo per chi ha super-udito, super-vista e super-olfatto. Dove magari spiegano le cose in un modo che per lui è incomprensibile, faticoso da seguire e noioso. E la noia per un autistico è mortale, sempre. Mio figlio ha bisogno di lunghi tempi di ripresa dopo una sfilza di giornate positive sì ma impegnative, e allora non va a scuola. Ma gli dispiace, e non vorrebbe. Ha imparato che non può fare diversamente, se esagera crolla sul serio, e allora sì che sono guai. Io cerco di non preoccuparmi se salta un giorno senza apparente motivo, il giorno dopo o al massimo quello dopo ancora se tutto va bene tornerà a scuola ricaricato. E’ il suo ritmo.

Mio figlio non scappa correndo dall’aula perché è un giovine scapestrato e provocatore che infrange le regole per affermare sé stesso, anzi lui è un tipo iper-aderente alle regole, scappa perché se va in sovraccarico sensoriale o cognitivo inizia ad avere problemi di propriocezione, e questo è brutto, chiaro che cerchi di levarsi di lì e alla svelta, lo fareste pure voi.

Mio figlio non si piglia a schiaffi da solo perché ha istinti autolesionisti da chissà quali traumi familiari, non serve allertare i servizi sociali, è che ha scoperto che darsi delle botte lo aiuta a contrastare il senso di malessere fisico che gli prende quando è in sovraccarico, la perdita di contatto con il proprio corpo con conseguente forte disagio o proprio angoscia. E’ un po’ come essere un Avengers in Infinity War e Thanos ha appena vinto, mi spiego? Ti senti il corpo sparire come sabbia al vento ma la mente no, se chiudi gli occhi sparisce anche il mondo esterno e tu è come se non ci fossi più del tutto e lo senti, non so come dire ma senti il tuo non esserci, ed è così brutto che preferisci il dolore. A questo proposito, sto cercando di insegnargli che una serie di colpi rapidi e leggeri con il palmo delle mani lungo tutto il corpo può essere ugualmente efficace senza ricorrere proprio agli sganassoni che gli ho visto auto-appiopparsi, si fa meno male ed ottiene lo stesso il risultato. Speriamo che funzioni.

Insomma, a volte la vita di un autistico è molto, molto complicata e difficile. Ma a volte no. Non complichiamocela quando non serve.