Se dico la parola autismo, a chi pensate? Molti, soprattutto quelli della mia età, penseranno a Rainman, cioè a Raymond, il bizzarro personaggio interpretato da Dustin Hoffman nel film omonimo (e che per colmo di ironia era ispirato principalmente ad un uomo, Kim Peek… che non era autistico, in realtà. Ma ok, diciamo che è autistico, perché per trent’anni è stato il volto dell’autismo per la cultura generale)
I più giovani probabilmente penseranno al protagonista di Atypical, oppure a The Good Doctor, il buon dottor Shaun, che sembra avviarsi ad una brillante carriera come chirurgo. Siamo lontani da Raymond di Rainman, è vero, ma l’impaccio di Shaun alle prese con i suoi colleghi e pazienti è evidentissimo.
Nessuno di voi penserà a me, che mi sento regolarmente dire “ma non sembri proprio autistica”. Eppure lo sono. Semplicemente, non corrispondo allo stereotipo. Ma ai criteri diagnostici sì, infatti ho una diagnosi. Solo, non ho carenze di empatia come vi aspettereste. Non ho grossi problemi con la teoria della mente. Non ho problemi a parlare, semmai il contrario, a stare zitta. Vi guardo anche negli occhi. Sono andata all’università. Ho una vita sociale, anzi ho amici, mi sono innamorata, ho avuto fidanzati, mi sono persino sposata e oggi tiro su dei figli. Non sono la vostra poster girl per l’autismo, insomma. Ma sono autistica. Evidentemente, idee “popolari” dell’autismo e criteri diagnostici scientifici sono due cose piuttosto lontane tra loro.
Cosa abbiamo in comune io, Shaun, Sam, Raymond e gli altri? Come è possibile che persone apparentemente così diverse condividano la stessa condizione, un tempo considerata solo una gravissima patologia? Insomma qual è alla fine il succo della faccenda, i tratti base, “core” per utilizzare il termine inglese, quelli che tutti gli autistici devono avere per essere considerati autistici?
Se prendete in mano il DSM-5, cioè il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, nella sua quinta edizione, per cominciare troverete l’autismo definito come uno spettro di disturbi del neurosviluppo. Le parole chiave qui sono tre: Spettro. Neuro. Sviluppo. Ricordatevele, le riprenderemo più avanti.
Dunque, l’autismo è uno spettro di condizioni contraddistinte da due grandi aree di criteri diagnostici. I criteri per esteso li trovate qui, ma in sostanza sono riassumibili in:
1) un deficit della reciprocità sociale (quindi non solo il rispondere o iniziare una conversazione o una relazione sociale, ma anche mantenerla nel tempo come un rapporto di scambio reciproco) e nella comunicazione non verbale, cioè tutti quegli elementi di mimica, prossemica, prosodia e regole non scritte della comunicazione che fanno parte del linguaggio ma non sono verbali
2) la presenza di interessi ristretti e comportamenti ripetitivi, che possono andare dalle stereotipie di vario tipo a una sensorialità atipica, e una ricerca di costanza (sameness)
Tutto qui, direte voi? Sì, tutto qui. E io ce l’ho tutte eh. Se fate la lista dei criteri diagnostici, celo celo celo. Non me ne manca uno. Pure se “non sembro autistica”. Perché allora io e Raymond siamo così diversi pur restando entrambi autistici? Per due motivi, principalmente.
1) Perché i tratti autistici possono presentarsi con maggiore o minore espressività, chiamiamola così. La difficoltà a instaurare e mantenere dialoghi e relazioni di tipo sociale, per esempio, può essere più o meno marcata. Anche la tendenza alla sameness, alla ricerca di costanza, può manifestarsi in modi più o meno rigidi, partendo da una preferenza ancora governabile per arrivare ad una inflessibile necessità di routine e costanza. Se io ho una lieve rigidità cognitiva, anche modulata da anni e anni di “allenamento”, per cui riesco ad adattarmi meglio a molti contesti ma non a tutti, i miei figli sono già più rigidi e infatti hanno più difficoltà in contesti sociali come la scuola, ed altri autistici possono essere davvero molto rigidi. Il profilo sensoriale è un’altra area in cui potete trovare differenze enormi tra persone autistiche, da chi per esempio vive chiuso in camera con serrande abbassate e sopporta a malapena il contatto coi vestiti a chi invece è iposensibile e quindi ama il contatto fisico e i suoni, passando per chi ha moderate ipersensibilità e se la cava con un quotidiano malditesta a fine giornata. Chi ha grandi difficoltà in campo sociale ma quasi nessuna stereotipia motoria o vocale, e chi il contrario. Veramente, un’infinità di variabili. La vita è bella perché è varia.
2) Perché all’autismo possono o no associarsi altre condizioni o veri e propri disturbi e patologie, che però non sono “autismo”. Possono esserci o no. Si può essere autistici anche senza averli, non sono necessari per la diagnosi. Anche se sono questi poi a co-determinare il quadro complessivo, quando presenti, a volte in modo notevole. Il DSM-5 li considera non dei criteri diagnostici, ma degli specificatori della diagnosi, e ne citerò alcuni. Servono per avere un quadro più chiaro e preciso della situazione globale, perché è chiaro che se consideriamo uno spettro vasto di condizioni, dire “è autistico” ci dà pochissime informazioni precise sulla situazione specifica. Che tipo di autistico è?
La necessità di supporto e adattamento da parte dell’ambiente è uno degli specificatori, ed esprime quella che una volta veniva definita “gravità” del quadro. Si può andare da una necessità minima di supporto, quasi nulla, fino a necessità di supporto costante e significativo.
Poi ci sono i disturbi del linguaggio. Tutti gli autistici sviluppano un linguaggio ed una comunicazione non verbale come minimo atipici, ma quanto atipici poi bisogna vedere. Nel mio caso, la compromissione del linguaggio è talmente lieve da risultare più in un’atipìa, appunto, una sfumatura di bizzarria, di comprensione letterale del linguaggio, di non immediata comprensione dei sottintesi e del non verbale del mio interlocutore, di predilezione per la ripetizione di frasi di film o canzoni per spiegarmi meglio… senza che questo però comprometta davvero la mia possibilità di comunicare efficacemente, quindi non ho un vero e proprio disturbo del linguaggio. All’estremo opposto dello spettro abbiamo persone che non producono alcun tipo di linguaggio verbale ed hanno anche difficoltà a comprenderlo. In mezzo, c’è di tutto.
La disabilità mentale: esistono autistici con grave disabilità mentale, autistici con un cognitivo nella norma, come si dice in termini clinici, e autistici con un quoziente intellettivo anche parecchio sopra la norma, QI di 150 e oltre. E’ chiaro che avere delle grandi risorse cognitive aiuta chiunque, quindi anche un autistico, ad adattarsi ed aggirare eventuali deficit in altre aree, sviluppando anche un buon adattamento complessivo all’ambiente, mentre una disabilità mentale renderà tutto più difficile per un autistico, che parte già da una posizione di atipicità del neurosviluppo in un mondo di persone per la maggior parte a sviluppo tipico.
Torniamo alle tre parole chiave di prima: qual è l’importanza di definire l’autismo uno spettro (assai ampio) di disturbi del neurosviluppo?
Per prima cosa, che si tratta di qualcosa che in nuce è presente fin dalla nascita, anzi da prima, quando appunto inizia il neurosviluppo (anche se può diventare evidente solo da un certo momento di questo sviluppo in poi, perché il livello di capacità richieste dall’ambiente diventa troppo alto per le possibilità di adattamento e compenso di quel bambino). Gli studi più recenti mostrano che in neonati poi diagnosticati anche anni dopo come autistici, sono già presenti nei primissimi mesi delle atipie nello sguardo, per esempio. I neonati autistici insomma esplorano (o non esplorano) e “vedono” già il mondo in modo diverso, fin dall’inizio. Da lì, da questa differenza iniziale, poi discende tutto. Addio, concetto di madre frigorifero che fa diventare autistico un bambino “nato sano”, e già che ci sei portati via pure i vaccini, non c’entrano nulla nemmeno quelli.
L’autismo poi è un disturbo del *neuro*sviluppo, cioè abbiamo già evidenze di vere e proprie differenze nella struttura del sistema nervoso, nel cablaggio diciamo, nelle impalcature di connessioni neuronali, e nel loro modo di funzionare. Il cervello autistico è diverso da quello neurotipico, questo lo sappiamo. Nasce diverso, vive diverso, muore diverso. Non si è neurotipici fallati o prigionieri di una malattia. Non si diventa neurotipici, mai. Bye bye anche al bambino nella bolla e alle fantasiose “terapie” che promettono “guarigioni” miracolistiche. Non ci mancherete nemmeno voi.
Invece, il concetto di disturbo del neurosviluppo è importante perché ci dice che anche quando questa condizione di autismo si manifesta in un quadro complessivo grave, questo è un quadro che si sviluppa nel tempo, esattamente come si sviluppa l’assetto di un cervello neurotipico. L’età evolutiva dura almeno fino ai 18 anni, e nulla è scritto nella pietra, soprattutto all’inizio. Anche se non conosciamo la causa prima dell’autismo, però possiamo cercare di capire i meccanismi di sviluppo nel tempo della condizione, come cerchiamo di capire quelli dello sviluppo neurotipico, e cercare di intercettare e modificare la traiettoria di questo sviluppo con i nostri interventi. In altre parole, lo sviluppo è modificabile perché sia il migliore possibile, perché si sviluppi l’intero potenziale (ed è un discorso generale, che vale per tutti gli individui, tipici e atipici). Perché mi pare plausibile che se un cervello autistico vede percepisce e apprende in modo diverso fin dall’inizio rispetto a un cervello neurotipico, il tipo di “nutrimento per la mente” che gli va fornito non sarà proprio lo stesso. Una parte del problema nel neurosviluppo autistico, che è atipico, è proprio che di solito gli viene fornita invece fin dall’inizio una dieta sensoriale e di stimoli pensata per i bambini neurotipici. Può risultare indigeribile o non assimilabile, in parte o del tutto, e rendere ragione almeno in parte delle difficoltà di funzionamento e adattamento. E’ necessario comprendere meglio le modalità di percezione, apprendimento ed elaborazione della mente autistica per fornirle gli stimoli più adatti. E questo è un campo affascinante, perché esattamente come esistono vari “tipi di intelligenza” tra i neurotipici, da cui derivano diversi stili di apprendimento e funzionamento, così pure tra gli autistici. Dopo che per molti anni si è pensato che gli autistici fossero tutti pensatori visivi, e da qui l’utilizzo massiccio di immagini per la comunicazione e l’apprendimento, adesso sappiamo che non tutti gli autistici sono visuali o principalmente visuali nella loro percezione ed elaborazione del mondo. Si torna al discorso di spettro anche qui, in fondo. Uno spettro che poi non è solo uno spettro, secondo me, ma non voglio spoilerarvi troppo del prossimo spiegone…
Il punto importante comunque è che l’autismo in sé non è una sentenza scritta al momento della nascita e nemmeno della diagnosi, come si è pensato per troppo tempo, è una condizione che si sviluppa nel tempo, durante la crescita della persona, e in una certa misura anche dopo la fase di crescita, perché la neuroplasticità sappiamo che non finisce con la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta, permane anche se in misura minore. E’ per questo che sono necessari protocolli di intervento di diversa intensità per diversi autismi, e devono essere accessibili a tutti coloro che ne hanno bisogno.
Infine, che l’esistenza, anzi il riconoscimento dell’esistenza anche di persone come me, con capacità di cavarsela nella vita, anzi con punti di forza talvolta notevoli in alcuni settori, superiori alla media o alla norma, come autistiche, nello spettro, stabilisce una volta per tutte che l’autismo *di per sé* non è una patologia. E’ una condizione, che può presentarsi proprio come la neurotipicità in modi diversi. La disabilità cognitiva e i ritardi di linguaggio che gli si possono accompagnare non sono una caratteristica core dell’autismo, sono una caratteristica dell’essere umano, possono presentarsi tanto negli autistici quanto nei neurotipici. Il fatto che esistano neurotipici con disabilità mentale grave però non ha mai indotto nessuno a considerare la neurotipicità come una patologia né a cercare una cura per la neurotipicità in quanto tale, quindi si spera che si passi dal considerare l’autismo una patologia per cui va cercata una cura al vederlo come una variante dell’umano sviluppo, una atipicità, che va compresa e sostenuta perché possa svilupparsi al suo meglio, anche in presenza di disabilità cognitiva.