Positività tossica

Oggi su un gruppo (molto interessante e utile, sia chiaro) dove si discute di normativa e (non) inclusione nella scuola italiana, m’è venuta sotto, pure un po’ piccata, una docente, per esortarmi ad essere un po’ positiva. Non apprezzava la mia critica sotto un post dove si parlava di un palese abuso da parte di una scuola nei confronti di una famiglia.

Perché ogni tanto succede pure questo: che quando finalmente perdi la pazienza l’aplomb e la voglia di perdonare, qualcuno ti faccia notare che no, non è un atteggiamento positivo criticare la scuola più inclusiva del mondo. Eccerto, so’ tutti boni a fare i positivi coi figli degli altri.

Peccato che questa inclusione rimanga sempre più sulla carta, e lo sappiamo bene qui, i miei figli ed io. La scuola italiana la stanno smontando pezzo per pezzo, e il primo pezzo che ci ha salutato è stato proprio quello delle risorse per l’inclusione.

Quindi oggi quando la sventurata m’è venuta sotto con il ditino puntato contro la mia negatività disfattista ho pensato al mio Asperboy, che ha iniziato a prendere le goccioline per resistere a scuola a 8 anni e che dalla scuola dell’obbligo (sottolineo: obbligo) si è portato a casa un diploma e un PTSD, al mio Aspiebaby che al momento riesce ad andare a scuola un paio d’ore due o tre volte alla settimana, in un’aula separata che per riuscire ad averla c’è voluto che arrivasse oltre il limite sennò prima stava in corridoio, e che il mese prossimo gli tocca anche a lui visita con npi per vedere se si riesce a tamponare anche lì col farmaco giusto. E ho concluso che considero già positivissimo non aver ancora fatto irruzione in una scuola gridando “Montessori è grande” armata di un fucile paintball caricato a guano.

Quando la legge invece è scritta bene ma non la leggono

Immaginate di essere sdraiati su un tavolo operatorio, con la cannula già in vena, la scialitica puntata addosso e attorno il solito fervere di attività di chirurghi, ferristi e anestesista che si preparano a operarvi.

Un attimo prima che l’anestesista vi metta in vena roba di quella buona per addormentarvi, alzate una mano e dite: no.

Vi garantisco che tutta la gente lì intorno in cuor suo magari vi manderà affandomo in varie lingue e dialetti, ma non vi metterà più un dito addosso. Vi metteranno su una barella e vi riporteranno in camera vostra. Non si azzarderanno a operarvi senza il vostro consenso.

Eppure, quando avete fatto le varie visite preoperatorie vi hanno fatto firmare fior di fogli dove esprimevate il vostro consenso all’intervento, affermando che siete consapevoli dei rischi e delle conseguenze. Quindi, perché non hanno proseguito? Carta canta, si dice, e loro carte in mano dove c’è scritto che acconsentite ce le hanno.

E’ che in Italia, per legge, funziona così (ma pure all’estero): il consenso a un trattamento medico può essere sempre ritirato, in qualunque momento. Anche a voce. Anche all’ultimo minuto.

Ecco, è la stessa cosa per il consenso a far seguire i vostri figli da questo o quel medico o psicologo, non importa se pubblico o privato. Vi avranno fatto firmare fior di fogli di consenso, a voi e pure al paTre della creatura, per essere sicuri che siete d’accordo e consapevoli. Senza quei fogli firmati nemmeno lo vorranno vede’, il creaturo. Ma quei fogli valgono solo finché voi non decidete il contrario e lo dite. Potete ripensarci 5 minuti dopo averli firmati, per assurdo, o 5 anni dopo. Non è un matrimonio complicato da sciogliere, non è un contratto a vita firmato col sangue. E’ un consenso modificabile in qualunque momento. Decidete di portare vostro figlio altrove, e finisce lì.

E la domanda quindi è: perché capita che scuole e Asl insistano che i ragazzi come i miei devono essere seguiti nel pubblico, e pretendono pure di decidere da chi? Risposta mia: perché o non conoscono la legge sul consenso al trattamento medico e quella sulla libertà di cura, oppure fingono di non conoscerla perché così si risparmiano un sacco di scocciature e si semplificano la vita. Ma la complicano a noi. E io non ci sto.

Quando la legge è scritta coi piedi

In Italia esiste la libertà di cura, ed è addirittura prevista dalla Costituzione, nell’art. 32. Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, tranne casi molto specifici e regolati dalla legge.

Questo significa che se non voglio essere curata per qualcosa nessuno può obbligarmi, e anche che posso scegliere da chi farmi curare. E questo vale anche per i minori di cui ho la responsabilità genitoriale, cioè i miei figli.

In Italia però esistono anche leggi scritte male, e una di queste è il DI 182/2020, là dove descrive la composizione del GLO, cioè il gruppo di lavoro che deve discutere e approvare il PEI, il Piano Educativo Individualizzato, che secondo la legge 104/1992 e sue linee di applicazione definisce tutti gli interventi da attuare a scuola per favorire l’inclusione dei ragazzi disabili come i miei figli.

Cosa dice questo DI 182/2020? All’articolo 3 comma 3 recita: “3. L’UMV (unità multidisciplinare di valutazione n.d.r.) dell’ASL di residenza dell’alunno o dell’ASL nel cui distretto si trova la scuola, partecipa a pieno titolo ai lavori del GLO tramite un rappresentante designato dal Direttore sanitario della stessa. Nel caso in cui l’ASL non coincida con quella di residenza dell’alunno, la nuova unità multidisciplinare prende in carico l’alunno dal momento della visita medica nei suoi confronti, acquisendo la copia del fascicolo sanitario dello stesso dall’ASL di residenza.”

E qui la mia domanda è: chi vi ha detto che l’alunno è sempre in carico alla Asl di residenza? I miei figli non lo sono, per esempio. Sono seguiti privatamente da specialisti competenti in materia. Infatti l’unica volta che una rappresentante Asl si è presentata al GLO di uno dei miei ragazzi, perché la scuola aveva insistito a convocarla a tutti i costi, la prima cosa che ha detto è stata: io non capisco perché sono qui visto che il ragazzo non è in carico a noi. Sgomento dei presenti, e mo’ che facciamo???? tranne la sottoscritta che ha detto: perfetto, mettiamolo a verbale e procediamo con il GLO.
Perché io la legge in materia di sanità la conosco, e pure quella in materia di inclusione scolastica. Però periodicamente la questione riciccia, quando c’è da convocare un altro GLO (e con due figli certificati e la nuova legge che ne prevede almeno 3 all’anno, vi lascio immaginare quanti ne ho fatti e ne farò ancora) e la scuola va in cardiopalma perché bisogna chiamare la Asl.

Che poi pare che questo fatto di avere i figli in carico a specialisti privati sia ‘na specie di capriccio da parte di noi genitori, un volerci “comprare” diagnosi di comodo magari.
Ora, farò un elenco di cose realmente accadute e non vi dirò a chi e dove, fatevi le vostre ipotesi, ma vi assicuro, sono tutte cose successe davvero:

– a qualcuno che conosco la Asl territoriale ha assicurato che la figlia non era autistica, tranquilli, e poi è autistica as fuck, all’ADOS fatto finalmente da altro professionista di altra Asl è uscito un punteggio da mani nei capelli. La prima Asl non ha purtroppo npi formati in autismo, succede eh, non è strano, mica possono essere esperti in tutto. Peccato però che le famiglie possano rivolgersi solo alla Asl del loro territorio, se gli va bene il npi di quella Asl ci capisce del problema del figlio, se gli va male non ci capisce e so’ cazzi amari, non puoi rivolgerti ad altra Asl dove sai che c’è gente più competente

– a qualcuno che conosco, la Asl territoriale ha dato appuntamento per la prima visita del figlio quattrenne con una psicologa che è cascata dalle nuvole perché lei si occupava solo di consultorio adolescenti. Tutto da rifare.

– a qualcuno che conosco, la Asl territoriale ha detto apertis verbis che non avevano la possibilità di inserire la figlia in un percorso terapeutico, perché non era abbastanza grave

– a qualcuno che conosco il mega centro di ricerca inserito nel sistema pubblico ha dato appuntamento per una visita 18 mesi dopo. Avete letto bene: primo posto disponibile, tra 18 mesi

– a qualcuno che conosco la Asl territoriale ha avviato la procedura di messa in lista d’attesa per ricovero urgente di figlia con ideazioni suicidarie. Stanno ancora aspettando la chiamata dopo 6 anni (nel frattempo ovviamente la figliola l’hanno portata altrove)

Potrei andare avanti un bel po’, ma spero che vi basti per capire che in questo paese, con questa sanità, le Asl e correlati istituti sono del tutto insufficienti per coprire le reali necessità delle famiglie di ragazzini come i miei.

Solo che lo Stato Italiano, bontà sua, a cui pago le tasse ma che non mi fornisce i mezzi per assistere al meglio i miei figli, poi mette in capo a me e a mio marito la responsabilità della loro salute fisica, mentale e sociale. In altre parole, se qualcosa va male la responsabilità è mia, mica della Asl che non c’ha specialisti formati, o che non ha posto per le terapie etc etc etc. E’ mia. Devo trovare io una soluzione, non solo perché se vedo i miei figli stare male mi si strappa l’anima, ma perché per legge è così. Ma per legge io sono passibile di denuncia se non mi occupo dei miei figli, non se non li metto per forza in cario alla Asl, questo non è obbligatorio. Devo provvedere a loro. Come meglio fare, lo devo decidere io.

Quindi, voi che fareste al posto mio?

Io so cosa ho fatto: ho cercato sempre il meglio possibile per aiutare i miei ragazzi qui e ora, pubblico o privato che fosse non me ne fregava niente, perché loro hanno bisogno di aiuto, e di aiuto competente, ORA, non tra 18 mesi se va bene.

Quindi per me questo famoso DI 182/2020, che ha dalla sua sicuramente vari pregi, quando si arriva al discorso composizione GLO è scritto coi piedi e serve solo a complicare ulteriormente la vita delle famiglie. Come se ne avessimo bisogno.

P.S. per chi si chiede ma allora come hai fatto ad avere la certificazione 104 dall’INPS, visto che ci vuole una diagnosi pubblica? A parte il fatto che non ovunque ci vuole per forza una diagnosi pubblica, i miei figli hanno almeno una diagnosi iniziale rilasciata da un ente pubblico, e poi per il resto sono relazioni di centri privati. Non è che quando la Asl ti rilascia finalmente dopo sangue sudore e lacrime una diagnosi poi quello è un contratto a vita firmato col sangue. Non c’è nessun obbligo a restare in carico alla Asl per sempre. Ma chi ha scritto il DI 182 evidentemente non lo sa o finge di non saperlo.

La colpa di fidarsi

C’è un risvolto molto amaro in tutte le vicende problematiche che coinvolgono i ragazzi come i miei. Ed è quello della fiducia tradita. 

Anche perché diciamocelo, in determinate circostanze noi atipici con scarse dotazioni per il sociale abbiamo davvero poco fiuto per le situazioni in cui fidarsi è bene ma non fidarsi sarebbe molto meglio. Se ci chiedono fiducia, o se hanno un ruolo che implica affidabilità sulla carta, tendiamo a fidarci.

E tendiamo anche a fornirci una serie di spiegazioni interiori per quello che non va, e tendiamo anche a credere che invece le cose cambieranno, miglioreranno, ora che finalmente abbiamo chiarito, spiegato, sviscerato, ci siamo accordati etc. In un certo senso è questa l’ingenuità dell’autismo, quella di prendere le cose “at a face value”, cioè in modo letterale, per come sono state dette, o scritte. Ti hanno detto che ci penseranno, faranno, cambieranno etc. e tu ci credi, ti fidi.

Ma la realtà non funziona così. E a volte lo capisci dopo anni, che quel medico che ti ha ghostato per mesi in realtà voleva solo che tu ti levassi di torno perché tuo figlio era un caso rognoso ma non te lo poteva dire in faccia, di andarti a cercare qualcun altro che lo seguisse. O che quella maestra diceva sì sì sorridendo, ma poi una volta in classe ricominciava come prima perché era convinta di avere ragione lei. O che semplicemente chi nasce tondo non muore quadrato. Cose così, che ci ripensi dopo anni e ti chiedi come hai fatto ad essere così scema. 

E quanto la realtà non funziona, chi è lì in mezzo è tuo figlio. Tuo figlio a cui avevi promesso un anno diverso, un medico diverso, una scuola diversa, finalmente. Tutte cose a cui ha diritto, e che non riesci a dargli, per quanto ti sforzi e provi e riprovi. 
E la cosa più amara di tutte è questa: che alla fine senti che la colpa è anche tua. Che ti sei fidata di nuovo, che non hai capito i segnali che magari erano evidenti per gli altri, che hai perso tempo ad aspettare un cambiamento impossibile, che hai permesso una volta di più che tuo figlio stesse male, e pagasse per le inadempienze e l’incapacità altrui.
E se gli altri te li puoi lasciare alle spalle, alla fine, e non perdi nemmeno tempo a cercare di perdonarli perché c’hai altro da pensare, è te stessa che non riesci a perdonare. 

Chi ha paura dell’ago cattivo?

Come raccontavo in un post precedente, l’Aspiebaby è stato dimesso dopo il suo intervento di allungamento bilaterale dei tendini con due bei gambaletti gessati da tenere un mese, e la prescrizione conseguente di un mese di iniezioni quotidiane di eparina.

La faccia di mi* figli* alla notizia ve la immaginate? L’ho visto sbiancare e irrigidirsi sul letto e guardarmi con due occhi sbarrati in cui si leggeva una sola parola: “NO!”, e ho pensato ale’, prepariamoci a 30 giorni di delirio. Perché l’Aspiebaby è fobico, e non per una cosa sola. Le sue fobie spaziano dallo spazio celeste, il il big bang e i misteri del tempo e dell’infinito a cose molto più terra terra come le procedure mediche. Poi sorprendentemente non ha nessun problema con insetti ragni e animali vari che scatenano reazioni di terrore in sua made o suo fratello, anzi prende in mano cimici e lucertole senza problemi (con scarso entusiasmo da parte mia e, immagino, da parte delle lucertola di turno), ma l’autismo è bello perché è vario, no?

Insomma, ci siamo ritrovati con un bel problema da gestire. E come al solito… ce lo siamo gestiti con quel mix di consigli professionali e non, esperienze, tentativi e botte de culo che contraddistingue ogni nostra avventura.

Anzitutto, facciamo la lista di tutto quello che abbiamo provato e non ha funzionato:
– gli ansiolitici, che ai miei figli ormai dopo anni di uso posso serenamente affermare che non fanno quasi nulla. Quando parte l’attacco di panico o se vuoi prevenire l’attacco d’ansia, le miracolose goccine di benzo a loro fanno pochissimo effetto, al massimo gli rilassano la muscolatura al punto tale che non stanno in piedi, ma la loro testa continua ad andare in loop che è una meraviglia, insomma ora non solo stanno male di testa, ma pure fisicamente si sentono uno schifo
– la sedazione: quella mediante Midazolam ha miseramente fallito, l’Aspiebaby è rimasto sveglissimo pure dopo 3 dosi e sempre in ansia; funziona meglio quella con anestesia totale, ma non puoi farla per un prelievo o un’iniezione al giorno… senza contare che ti servirebbe un anestesista a domicilio
– l’anestesia locale con il gel di Luan che sia 1% o 2,5%, nada, continua a sentire tutto e se va bene la prima volta, la seconda non si fida più, e questo è un altro grosso problema: è difficile avere la fiducia di un piccolo autistico PDA, e se poi te la giochi diventa molto difficile recuperare
– la desensibilizzazione progressiva, grande cavallo di battaglia della CBT che abbiamo provato più volte, e che come strategia di attacco non funziona, anzi, esponili allo stimolo ansiogeno anche nel modo più graduale, ‘sti due, e il risultato è che l’ansia non cala quasi per niente e comunque anche per quel poco ci vogliono dei tempi così lunghi per un risultato così minimo che è sostanzialmente inutile
– dirgli cose tipo “ma dai che non è nulla, sei grande ormai”

Cosa ha funzionato allora? Ha funzionato porsi il problema che sì ok, ma perché ‘sto ragazzino va in ansia così forte? A volte le persone hanno paura di cose mai sperimentate, ma altre volte ne hanno paura *dopo* aver sperimentato. E’ una paura che si basa sull’esperienza. Nel caso dell’Aspiebaby, lui da piccolo ha fatto delle vaccinazioni, quindi la sensazione dell’ago che entra la conosce, ed è quella che l’ha terrorizzato. In altre parole, la sua è una paura di una esperienza sensoriale. Ecco che ritorna l’importanza delle percezioni sensoriali per le persone autistica, e della componente emotiva e sensoriale della memoria. Quando l’Aspiebaby pensa all’iniezione, rivive in modo estremamente vivido il ricordo compresa la sensazione, il ricordo percettivo insomma, e l’emozione che ci si è collegata allora. E non venitemi a dire che “ma un ago che male vuoi che faccia?”, voi non siete nel corpo di un altro e non sapete cosa sente veramente l’altro. Gli autistici hanno una lunga storia di svalutazione delle loro percezioni sensoriali, specie quando sono molto più acute di quelle dei tipici, e non aiuta. Insomma l’Aspiebaby aveva una memoria eccezionalmente vivida e colorata emotivamente di un’esperienza decisamente dolorosa o come minimo molto sgradevole con le iniezioni, per di più in ambienti estranei, stressanti e dove non aveva nessun controllo. Il tutto in un pacchetto unico che lo paralizzava.

Partendo da qui la sua psicologa gli ha dato una serie di suggerimenti per gestire proprio le componenti sensoriali in occasione del prelievo per gli esami pre-operatori: musica in cuffia e una felpa con cappuccio per escludere il più possibile l’ambiente esterno mentre aspettavamo in sala d’attesa, la fase ahimè in cui monta l’angoscia (anche grazie all’organizzazione da girone dantesco di certi ambulatori…). Poi, al momento clou, mentre il personale si teneva un attimo a distanza l’Aspiebaby avrebbe utilizzato una benda sugli occhi per non vedere proprio l’ago, avrebbe dato il segnale di via libera quando si sentiva pronto (in modo da mantenere un minimo di controllo sulla situazione) e mentre l’infermiera faceva il prelievo su un braccio, io avrei contemporaneamente pizzicato l’altro braccio in modo da fornire uno stimolo sensoriale che gli permettesse di focalizzarsi lì e non sul braccio del prelievo.

E’ andata, ma è andata una volta e non proprio liscia: l’Aspiebaby ha tentato la fuga due volte mentre aspettavo che le infermiere ci chiamassero, comunque ha tremato e pianto tutte le sue lacrime durante e insomma, ne siamo usciti vincitori ma piuttosto provati … rifarlo tutte le sere, a casa, si è dimostrato quasi impossibile. Prima sera, da quando ho iniziato a proporglielo a quando siamo riusciti a fare questa benedetta eparina ci sono volute due ore, con gli ultimi 40 minuti di stress massimo, nonostante l’aiuto di suo fratello, la santa pazienza di sua madre, le dritte della sua psicologa e il tifo a distanza di suo padre. Noncelapotevamofare.

A questo punto ho iniziato a chiedere in giro perché non sapevo proprio cosa fare, ed è arrivata la dritta che ci ha cambiato la vita: l’EMLA. A quanto pare il gel Luan che ci hanno dato in farmacia per cercare di anestetizzare la parte non andava bene, in realtà è un gel che si usa per le mucose, non per la cute, e con effetti piuttosto rapidi e non abbastanza profondi (ce n’eravamo accorti…). Su prescrizione medica abbiamo preso una crema anestetica, l’EMLA appunto, che costa quanto l’unto della Maddalena in un tubetto piccino picciò ma a noi va bene così, che contiene sia lidocaina che prilocaina, una a effetto rapido e l’altra a effetto più lento, e viene venduta con corredo di cerotti occlusivi*. La crema va messa sulla cute, coperta con il cerotto occlusivo e tenuta in sede almeno 2 ore, meglio 3. A quel punto la sensibilità della “moneta” di pelle anestetizzata è decisamente molto minore. La prima sera che l’abbiamo usata ci abbiamo messo più di un’ora di tira e molla prima che si facesse fare la puntura. La seconda sera 40 minuti. La terza ce la siamo cavata in ancora meno tempo, e così via… e adesso dopo due settimane praticamente l’Aspiebaby si fa fare l’iniezione come se niente fosse, una volta si è anche tolto la benda e ha guardato un po’ incuriosito l’ago nel suo braccio. Gestita la questione sensoriale del dolore, insomma, il ragazzino ce la fa.
Sensorialità rulez, come al solito.

* i cerotti occlusivi nella confezione sono solo due, ma si sostituiscono efficacemente con la plastica trasparente delle buste per raccoglitori ad anelli, ritagliata in quadrati della misura necessaria e tenuti in sede o con cerotto o con garza tubolare a rete. McGyver, spostate!

La tregua di Natale

La storia ci narra che nel 1914, a ridosso del Natale, nelle trincee del fronte occidentale dove già si moriva come mosche in nome del nazionalismo e della volontà di potenza dei paesi belligeranti, successe qualcosa di inaspettato (dicono): i soldati si misero a scambiarsi visite invece che pallottole, piccoli regali, racconti, insomma sospesero informalmente le ostilità e fraternizzarono.

Ecco, io il Natale per noi autistici lo vorrei un po’ così: una tregua, una sospensione della lotta quotidiana, della guerra che ci tocca combattere là fuori tutto l’anno. Perché poi il punto della tregua di Natale, secondo me, è che non fu una questione di buoni sentimenti, fu una questione di prioritizzazione. Quei soldati per un po’ riuscirono a mettere in un ordine molto più sano le priorità della vita: la potenza delle nazioni? Sticazzi. La vittoria a ogni costo? Anche no. Sono più importanti altre cose. Come ad esempio riconoscere e rispettare l’umanità dell’altro, e anche la propria. E farsi una partita di pallone invece che ammazzarsi senza scopo.

Nel nostro caso, Natale significa riconoscere e rispettare il fatto che siamo autistici, santapaletta, e rimettere un po’ in fila le priorità. Festeggiamenti affollati? Anche no. Baci e abbracci alla prozia Cunegonda sennò si offende? Sticazzi. Dobbiamo proprio socializzare? Non scherziamo. Facciamo che ognuno si prende i suoi spazi, i suoi tempi, si fa questa enorme coccola di dirsi: puoi essere come sei, e va bene così. Questo è davvero il Natale, è davvero vacanza, riposo.

Quest’anno poi l’operazione dell’Aspiebaby ci obbliga ancora di più a rivedere le priorità, a dare tutto lo spazio e il tempo necessari al nostro essere chi siamo e cosa siamo.
Mentre scrivo, l’Aspiebaby è di là in camera sua, sotto le coperte. Ora, capiamoci: l’Aspiebaby è autistico con un profilo PDA. Significa evitamento estremo delle richieste. Significa che qualunque richiesta gli arrivi gli scatena una forte ansia, e più sono le richieste peggio va, fino al blocco totale. E “richiesta” ha un significato estremamente ampio, in questo contesto. Richiesta non è solo una prestazione scolastica, o chiedergli di fare una cosa, richiesta è mantenere un impegno, lavarsi ogni giorno, arrivare a una certa ora, persino dover mangiare, o andare in bagno perché il tuo corpo lo richiede…

Tutto questo viene enormemente complicato quando ci si sposta in un ambiente estraneo, dove ti viene chiesto di adattarti a ritmi persone arredi modalità diverse dalla routine a cui sei abituato. Un fuoco di fila di richieste, implicite ed esplicite. E adesso aggiungeteci le procedure mediche necessarie per un’operazione. E infine, il dolore post operatorio.
Se i medici immaginassero quanto il dolore possa influenzare il comportamento di una persona autistica, quanto possa rendere difficile e a volte impossibile la compliance o anche la semplice calma, a mio figlio avrebbero dato roba di quella buona senza manco dovergliela chiedere. Ma siamo in Italia, e un po’ di dolore non ha mai ucciso nessuno no?

Ed è che le persone, e quindi pure i medici, non vedono cosa succede nelle case degli autistici. Ci vedono camminare per strada, andare in ambulatorio, entrare in reparto sulle nostre gambe. L’Aspiebaby parla, ragiona, sorride anche, fa un masking livello pro come tutti i PDA, nonsembraautisticosignoramia, quindi tutti pensano che ce la può fare. Non vedono poi gli attacchi di panico, non vedono la catatonia, non vedono quando si taglia, non vedono un sacco di cose. E se glie le racconto, non mi credono, vedi l’altroieri. Quindi ci dimettono in scioltezza con la notizia che Aspiebaby deve farsi 30 giorni di gambaletti gessati e punture di eparina, lui che ha la fobia degli aghi e anche solo un prelievo significano 40 minuti di calvario&panico. E noi torniamo a casa, e so’ cavoli nostri.

Mentre vi scrivo fanno più di 24 ore che non va in bagno, e non mangia e non beve da ieri sera. Questo è uno dei possibili effetti di un’ospedalizzazione più dolore trattato alla come ‘ene ‘ene, su un bambino autistico e PDA. E non dite “eeeh prima o poi la farà”. Alla sua età ho tenuto la pipì per più di 48 ore, solo perché eravamo in vacanza e mi facevano schifo i bagni del campeggio, manco avevo subito un’operazione. Quando alla fine gli adulti hanno realizzato e mi hanno portato in un bagno decente, perché comunque non mollavo, avevo rimediato una vescica incontinente. Quindi lo so che bisogna farlo pisciare, ma so anche che fargli pressione è come finire sulla casella “torna al punto di partenza” del gioco dell’oca. Ogni volta che fai una richiesta, in queste situazioni, non fai altro che aumentare la pila di richieste che stanno schiacciando quella persona, e allontanando la soluzione. Non la stai aiutando, la stai mandando in blocco ancora di più.

Quindi adesso qui si dichiara una specialissima tregua di Natale: qui nella nostra personalissima trincea le richieste di qualunque tipo vengono abbassate a zero o quasi, sospese. Ci sono solo 3 priorità: quando te la senti fai pipì, tutte le sere tocca fare l’eparina, e poi prendi la terapia antidolorifica. Il resto pace, lavarsi non è fondamentale per la sopravvivenza, pettinarsi men che meno, stai a letto se vuoi. Riposati. Stai in silenzio. Comunichiamo per messaggi, non serve nemmeno guardarsi. Da mangiare ce l’hai lì, se vuoi. Ti lasciamo in camera tua in pace, anzi mettiamo pure un cartello fuori che si entra il meno possibile. La nostra ansia ce la teniamo, tu ne hai già a sufficienza, e cerchiamo di aspettare, di fidarci di te e di questa strategia. Speriamo bene. Buona tregua di Natale a tutti.

Ho visto cose che voi umani

La parte difficile di quando i miei figli devono essere operati per qualcosa, quella che ci fa davvero paura, non è l’operazione in sé. E’ riuscire ad essere presi sul serio dal personale medico quando cerchiamo di spiegare la particolarità dei ragazzi, e gli accomodamenti di cui hanno bisogno, che no, non sono vizi o capricci. Spiegargli che anche se a loro pare di sapere tutto quel che c’è da sapere no, non è così, ci sono cose che possiamo dirgli solo noi genitori, che loro non si sognano nemmeno, e che è meglio che sappiano per evitare casini, come fughe disperate del creaturo, o meltdown di quelli che ti scassano mezza corsia e si fanno male. Ho visto cose che voi umani, e sono qui per spiegarvele così vi risparmio di vederle pure voi. Dateme retta, conviene a tutti.

Mentre scrivo, l’Aspiebaby è in sala operatoria per l’allungamento dei tendini del polpaccio, retratti dopo anni di cammino sulle punte. E ho appena finito di discutere con l’anestesista, che quando ho detto che avrebbero dovuto addormentarlo con la mascherina, e POI mettergli l’agocannula per l’anestesia totale, perché l’Aspiebaby è autistico, ansioso, con attacchi di panico e la fobia delle procedure mediche, mi ha risposto esattamente quello che mi aveva risposto settimane fa la sua collega alla visita pre-anestesiologica “Senta, mi sembra grandicello per la mascherina…”.

Ora, io già settimane fa avevo spiegato per il lungo e per il largo alla collega che Aspiebaby è austistico, ansioso, fobico etc etc, che manco l’anestesia per i denti si fa fare tanto è vero che ha dovuto fare tutte la carie in sedazione totale (e lì la mascherina l’hanno usata eccome), che solo per fare il prelievo aveva cercato di scappare due volte, insomma sticazzi del grandicello, e lei mi ha assicurato che avrebbe scritto tuuuuuutto in cartella… col cavolo, a quanto pare. O non l’ha scritto proprio, o l’anestesista di oggi l’ha scambiata per carta igienica, e mi ha detto di lasciarli fare il loro lavoro. Eccerto, io so’ 13 anni che pettino bambole co’ ‘sto ragazzino.

Così è andata come prevedevo io, e loro no, cioè che Aspiebaby quando ha realizzato che niente mascherina ha iniziato a iperventilare e agitarsi sul lettino, insomma stava partendo l’attacco di panico e il tentativo di fuga era solo questione di tempo (poco). Io mi sono incazzata, e ho deciso che fanculo l’accondiscendenza e la collaborazione con i clinici, se loro non collaborano con me e fanno star male INUTILMENTE uno dei miei ragazzi. E ho messo madrestronza mode ON.

Madrestronza mode ON significa chiamare l’anestesista e dire davanti a tutti e a brutto muso che sta partendo un attacco di panico, che vi avevo avvisato e INSOMMA MI VOLETE DARE RETTA?? visto che ho due figli autistici e li conosco bene, so cosa funziona e cosa non funziona. Manco lo facessi per divertimento poi. Snocciolo di nuovo tutte le diagnosi dell’Aspiebaby, quelli vedono la mala parata ma non mollano. Niente mascherina, decidono, si fa con una benzodiazepina per bocca per farlo dormire. Dentro di me me cascano le braccia ma dico ok, lasciaglielo fare Sere’, almeno non è una cosa stressante, che ci si scornino pure. Così parte la prima dose di midazolam e zucchero, ‘sto farmaco miracoloso. Che ovviamente all’Aspiebaby non fa un cazzo. Aspetta un po’, nada, e allora vai con il secondo cucchiaino di Midazolam. Che non gli fa un cazzo manco quello. Allora si prova con il midazolam liquido sparato direttamente in narice. Come sopra, aspettiamo ma Aspiebaby sempre bello sveglio! A questo punto ne ho le scatole piene e dico: lui è atipico, ci sta che non funzioni come per i tipici, il midazolam. Lo xanax per esempio non gli fa quasi nulla, e comunque gli fa effetto dopo 2 o 3 ore (Aspiebaby sveglissimo conferma). E già che ci sono gli spiego che l’autismo e la sindrome di Ehler Danlos sono correlati geneticamente, e che come nella sindrome di Ehler Danlos è ben conosciuta la resistenza all’anestesia, così può succedere anche in persone autistiche, vedano un po’ loro, il su’ fratello si è svegliato ancora intubato a suo tempo. E che forse è meglio che invece dell’amoxicillina + acido clavulanico usino un altro antibiotico, perché l’acido clavulanico può dare forte agitazione nelle persone neuroatipiche come autistici o ADHD, il fratello è così e quindi con Aspiebaby manco lo abbiamo mai usato.

A questo punto, solo a questo punto, lo portano in sala operatoria e si rassegnano a usare la mascherina. Con qualche difficoltà Aspiebaby si addormenta e io vengo accompagnata all’uscita, direi che non vedono l’ora che mi levi dalle palle. Spero sappiano che la cosa è reciproca.

La conclusione è questa: a me non piace fare la madrestronza, non mi sento bene a mettermi in opposizione ai medici che hanno in cura i miei ragazzi, e sopportare le loro facce e il loro tono che va da condiscendente a ostile quando si rendono conto che non mollerò manco p’o’ cazz. Ma se devo farlo lo farò. Perché mi sono stufata che i miei figli debbano star male in modo totalmente inutile.

La Sagrada Familia dell’autismo

Warning: questo è un post ad altissimo tasso di incazzatura. Incazzatura mia, tanto per cominciare, perché di certe cose ormai ne ho piene le scatole. E incazzatura vostra, magari, perché non è un post che piacerà a molti, e molti potrebbero pensarla diversamente. E sticazzi, ovviamente, finché questo è il mio blog qui ci sarà quel che penso io.

Oggi parleremo della famiglia italiana nel mondo dell’autismo. Perché i bambini di solito hanno una famiglia, e quando un bambino ha un problema è tutta la famiglia che viene coinvolta. In teoria. Quello che succede è che di solito c’è un membro della famiglia a cui viene demandato l’accudimento della prole, problematica o no che sia. E indovinate chi è? Bravi, avete indovinato. E’ la madre. La maTre di famiglia secondo i migliori canoni della tradizione italica et patriarcale (e pure un po’ paracula).

Intendiamoci, lo fai anche volentieri perché quello lì è tuo figlio, un piezz’e core, ma negli anni quello che accade, nel caso soprattutto dei bambini autistici, è che si allarga sempre di più il gap. Il gap tra le tue conoscenze e competenze in materia, vuoi acquisite informandoti vuoi con l’esperienza pratica, e quelle degli altri membri della famiglia. Quindi tu ne sai sempre di più, loro sempre di meno, insomma quella più capace sei tu e quindi è naturale che tocchi sempre di più a te. Poi c’è il fatto che molte madri di autistici lascino il lavoro o gli studi per star dietro ai figli, e quindi tu non hai niente da fare no? Gli altri invece c’hanno da lavorare, c’hanno gli allenamenti, c’hanno i loro importantissimi cazzi e mazzi, e quando scoppia la crisi si ritrovano sempre misteriosamente in un comodo altrove. E tu lì, a gestire l’ennesima crisi. L’ennesima visita. L’ennesimo colloquio difficile a scuola. Da sola. Quegli altri non lo fanno proprio apposta, anzi un po’ gli dispiace che non sono capaci come te, ma sotto sotto alla fine è anche comodo, sai quante rotture di coglioni ti risparmi?

E già così, secondo me, basterebbe e avanzerebbe per incazzarsi. Ma c’è una ciliegina su ‘sta torta che a me non va proprio giù. Ed è che quando poi ci si ritrova tutti in quei meravigliosi momenti di confronto pubblico, che sia sociale o clinico, tu che come madre ti fai il culo per star dietro al creaturo informarti studiare portarlo in giro per visite terapie compleanni etc., e ormai hai imparato benissimo a capirlo e gestirlo, lui le terapie i compiti i rapporti con la scuola etc. etc. etc. … ti senti dire che così non va bene. Perché sei troppo, cara mia. Troppo presente, troppo efficiente, troppo debordante, tuo figlio ti vede come la fonte di ogni salvezza, e invece il padre no, non lo vede così. Togli spazio alla figura paterna. E ovviamente, nella migliore tradizione psicologica d’accatto, è colpa tua. Cornuta e mazziata: ti fai un culo come una manica di cappotto, al meglio che puoi, cercando di coprire le mancanze e lacune altrui, ci riesci pure bene magari, e non dico dirti grazie, ma ci fai pure la figura della madre madrona. E tocca quasi ringraziare che non ti danno più della madre frigorifero, perché la scuola di pensiero è quella, ma insomma, qualche colpa te l’appioppano sempre, non si scappa.

E guardate che ci sono pure dei padri che, in queste situazioni, pensano bene di cavarsi d’impaccio dicendo “eh tanto io anche se provo a dire qualcosa non conto niente” o “eh io tanto devo sempre stare zitto”.
ESATTO. Se non sei competente e rischi di dire stronzate, è meglio che stai zitto. Tu che non ci stai praticamente mai a gestire i loro meltdown, tu che a malapena sai che faccia hanno le sue maestre, tu che in 10 anni dalla diagnosi non ti sei mai nemmeno letto un libro sull’autismo, mentre probabilmente lei macina corsi e master, tu che c’hai sempre gli allenamenti il lavoro l’inondazione le cavallette ma insomma non è mai compito tuo… tu quando c’è da decidere cosa fare con la salute e il benessere di tuo figlio i casi so’ due: o riesci per qualche misterioso miracolo a tirar fuori qualcosa di sensato, o se devi dire le solite cose totalmente inadatte per la gestione di un ragazzino autistico, non puoi pretendere che siano valide solo perché qui metà del DNA è tuo. Devono essere prima di tutto sensate e adeguate.


Insomma abbiamo uno stato che non fornisce servizi nemmeno lontanamente adeguati e scarica tutto il welfare sulla famiglia, che significa sostanzialmente sulle donne della famiglia. Poi abbiamo una legge che obbliga scuola e specialisti a riconoscere lo stesso peso decisionale a entrambi i genitori, e una cultura imperante che ritiene che sia giusto e doveroso a prescindere dal contributo dato dalle due figure, ma nei fatti la cura dei bambini, autistici e non, è quasi tutta demandata alle madri o figure sostitutive femminili. Non è che ce lo siamo scelto, che fosse così, nessuno si strappa i capelli per avere quest’onore fidatevi, è così perché socialmente funziona così, io lo faccio perché questi sono i miei figli, e come me so che lo fanno tantissime… ma ritrovarsi poi cornute e mazziate come sopra in nome della difesa dell’immagine di presepe familiare del patriarcato (e di scuole di pensiero vecchie come il cucco) anche no, grazie.

Bene, arrivati qui ci saranno sicuramente dei padri offesissimi che diranno non è vero, io mi occupo di mio figlio, con sua madre, siamo alla pari in questo o comunque io partecipo in tutti i modi possibili, sono un padre presente, #notallmen etc.
E io vi crederò, nessun problema. Ma guardiamoci in faccia con onestà, non siete la normalità. Guardatevi intorno sui gruppi dedicati all’autismo, per esempio, guardate alle riunioni della scuola, o nelle sale d’aspetto dei centri di terapia, contate quante madri e quanti padri ci sono, tanto per fare un esempio facile facile. E allora andateglielo a dire a tutti gli altri colleghi vostri, non dico di darsi una mossa studiare partecipare etc., peccarità, ma almeno che la prossima volta che qualcuno dice alla moglie che fa troppo o decide troppo, invece di fare pure il vittimista con la solita frase “eh io non posso mai dire niente”, provassero a rispondere la verità: “Guardi, mia moglie è quella che se ne occupa di più, ne sa decisamente più di me, quindi è meglio così”.

Il mio planner LEGO

Metto subito le mani avanti: l’idea non è mia. Già nel lontano 2013 dei creativi inglesi avevano elaborato un planner fatto con il LEGO per organizzare la loro attività lavorativa: chi si occupava di cosa. E c’era pure un’app associata, per sincronizzare il calendario con Google Calendar! L’idea mi è rimasta in testa per anni, appunto, e oggi grazie al LEGO Pick a Brick finalmente l’ho realizzata. Ovviamente non potevo limitarmi a una semplice organizzazione della mia attività lavorativa, anche perché cosa faccio e quando travalica i limiti della definizione di lavoro: sono una sorta di factotum h24/7, studentessa, caregiver, a tempo perso essere umano con degli hobby. Il mio LEGO planner è decisamente più complicato di quello dei Vitamins.

Ora, si tende a ritenere che le agende visuali siano un ottimo supporto per persone autistiche con disabilità, o comunque disabili con difficoltà di elaborazione, soprattutto dei concetti astratti. E che di conseguenza le persone autistiche con un buon cognitivo non ne abbiano bisogno (ricordo che all’Aspiebaby lo stesso npi l’aveva sconsigliata essendo il pupo intelligentissimo). E qui io dissento invece. Fermiamoci un attimo a considerare il perché le agende visive vengono consigliate per i bambini autistici a scuola, ad esempio: perché le persone autistiche spesso – non sempre – hanno una preferenza per il canale visivo. Ce l’hanno perché le loro connessioni dalle cortecce visive alle altre aree del cervello sono più numerose e “potenti”. Questo determina il fatto che riescano a prendere dall’ambiente informazioni, integrarle ed elaborarle meglio se passano per il canale visivo. Quindi stiamo parlando non solo di acquisizione di informazioni, ma anche di elaborazione di informazioni. Quello che chiamiamo “pensare per immagini”. Quindi le agende visuali non sono solo un supporto per chi “non ce la fa” senza immagini, e da togliere appena quella persona ce la fa, sono proprio qualcosa di naturalmente adatto al modo di pensare di molte persone autistiche. Che è molto spesso visuale, ed elabora molto bene le immagini (e dunque i concetti sottostanti). Quindi una persona con un modo di pensare visuale è più facile che tiri fuori l’intuizione, l’idea, il collegamento, la comprensione migliore, se gli viene permesso di utilizzare mezzi visuali più consoni al proprio funzionamento. Ecco perché un bel planner visuale secondo me è adattissimo anche per persone che non presentano una disabilità o una difficoltà evidente.

E mi direte: ma allora cos’ha che non va un planner tipo Google Calendar, che è visivo ed è pure comodo da portarsi dietro, essendo un app? Giustissimo, infatti Google Calendar lo uso anche io, però il planner LEGO ha una caratteristica che nessun altro planner del genere ha, e quindi per me batte Google Calendar any day of the week. Ed è questa: che il LEGO non solo è visibile, è anche concreto, materiale. E quindi non sparisce.

Pensateci un attimo: avete una giornata accuratamente pianificata nel vostro Calendar, con momenti di lavoro e momenti di giusta ricarica. Poi arriva un imprevisto, e dovete cancellare quelle due ore di pausa e ricarica che vi eravate programmat*. Ecco, che fine fanno quelle ore? Spariscono, appunto. Potreste riprogrammarle subito, ma potreste anche cancellarle e via, e dimenticarvele, e quella settimana quindi vi riposate meno. Ma se sono un mattoncino di LEGO, potete anche staccarlo dal planner ma vi rimane in mano. Dovete rimetterlo da qualche parte. Se non lo fate, vi resterà comunque lì, visibile, a ricordarvi che dovete trovare uno spazio per riposarvi in qualche modo. Non potete fregare voi stess*, con un LEGO Planner.

Questo è il punto di forza del LEGO: vi consente di pianificare in anticipo quante ore a settimana dedicare a ogni attività, mediante il numero di mattoncini di ogni colore, e a quel punto dovete trovare un posto per ogni cosa. O rendervi conto che non tutto è possibile, che magari dovete ristrutturare la vostra settimana. Questo sistema vi permette di dare valore alle cose, di gestire meglio i vostri limiti. Per esempio, nel mio planner i mattoncini grigi che rappresentano un’attività particolarmente faticosa sono un numero finito: non posso permettermi più di tot ore di ammazzate di fatica a settimana, nella mia vita. Se a metà settimana ho già finito i mattoncini grigi, significa che sto esagerando, e che ho ottime possibilità di finire quella settimana a letto con una riacutizzazione di malattia. Mi devo dare una regolata. I mattoncini rosa che rappresentano il riposo al contrario, sono in dotazione in numero enorme: tanto per ribadire che per una persona come me il riposo non è mai “troppo”. Mi permetto di riposarmi il più possibile, è un bisogno e un diritto. Poi ci sono i mattoncini verdi dello studio, e sapere che ho programmato ore sufficienti di studio ogni settimana mi aiuta a tenere sotto controllo l’ansia da “oddio non ce la farò a fare tutto”. Ce la faccio, mi basta uno sguardo al calendario per capirlo, con tutto quel verde sparso qua e là. Poi ci sono i mattoncini delle uscite con mio marito, o un’amica, quegli spazi piccoli ma assolutamente non negoziabili che devo tenermi per restar sana di mente. Sono lì, di un bel colore che si vede bene, per ricordarmi che ci sono, che ci devono essere. E poi le ore di tutoring con i figli, occuparsi della casa etc. Insomma, ogni cosa importante ha un colore e un posto, nel mio planner LEGO. Quando mi attengo al planner, le settimane scorrono via meglio e io sono meno stanca. Mi ha aiutato molto a riflettere sulla mia gestione del tempo, e a lavorarci su. E credo aiuterebbe anche altre persone a strutturarsi meglio le giornate, a non “lasciare indietro” la cura di sé. Insomma, qualunque sia il vostro assetto e funzionamento neuropsicologico, più LEGO planner per tutti.