Il mio planner LEGO

Metto subito le mani avanti: l’idea non è mia. Già nel lontano 2013 dei creativi inglesi avevano elaborato un planner fatto con il LEGO per organizzare la loro attività lavorativa: chi si occupava di cosa. E c’era pure un’app associata, per sincronizzare il calendario con Google Calendar! L’idea mi è rimasta in testa per anni, appunto, e oggi grazie al LEGO Pick a Brick finalmente l’ho realizzata. Ovviamente non potevo limitarmi a una semplice organizzazione della mia attività lavorativa, anche perché cosa faccio e quando travalica i limiti della definizione di lavoro: sono una sorta di factotum h24/7, studentessa, caregiver, a tempo perso essere umano con degli hobby. Il mio LEGO planner è decisamente più complicato di quello dei Vitamins.

Ora, si tende a ritenere che le agende visuali siano un ottimo supporto per persone autistiche con disabilità, o comunque disabili con difficoltà di elaborazione, soprattutto dei concetti astratti. E che di conseguenza le persone autistiche con un buon cognitivo non ne abbiano bisogno (ricordo che all’Aspiebaby lo stesso npi l’aveva sconsigliata essendo il pupo intelligentissimo). E qui io dissento invece. Fermiamoci un attimo a considerare il perché le agende visive vengono consigliate per i bambini autistici a scuola, ad esempio: perché le persone autistiche spesso – non sempre – hanno una preferenza per il canale visivo. Ce l’hanno perché le loro connessioni dalle cortecce visive alle altre aree del cervello sono più numerose e “potenti”. Questo determina il fatto che riescano a prendere dall’ambiente informazioni, integrarle ed elaborarle meglio se passano per il canale visivo. Quindi stiamo parlando non solo di acquisizione di informazioni, ma anche di elaborazione di informazioni. Quello che chiamiamo “pensare per immagini”. Quindi le agende visuali non sono solo un supporto per chi “non ce la fa” senza immagini, e da togliere appena quella persona ce la fa, sono proprio qualcosa di naturalmente adatto al modo di pensare di molte persone autistiche. Che è molto spesso visuale, ed elabora molto bene le immagini (e dunque i concetti sottostanti). Quindi una persona con un modo di pensare visuale è più facile che tiri fuori l’intuizione, l’idea, il collegamento, la comprensione migliore, se gli viene permesso di utilizzare mezzi visuali più consoni al proprio funzionamento. Ecco perché un bel planner visuale secondo me è adattissimo anche per persone che non presentano una disabilità o una difficoltà evidente.

E mi direte: ma allora cos’ha che non va un planner tipo Google Calendar, che è visivo ed è pure comodo da portarsi dietro, essendo un app? Giustissimo, infatti Google Calendar lo uso anche io, però il planner LEGO ha una caratteristica che nessun altro planner del genere ha, e quindi per me batte Google Calendar any day of the week. Ed è questa: che il LEGO non solo è visibile, è anche concreto, materiale. E quindi non sparisce.

Pensateci un attimo: avete una giornata accuratamente pianificata nel vostro Calendar, con momenti di lavoro e momenti di giusta ricarica. Poi arriva un imprevisto, e dovete cancellare quelle due ore di pausa e ricarica che vi eravate programmat*. Ecco, che fine fanno quelle ore? Spariscono, appunto. Potreste riprogrammarle subito, ma potreste anche cancellarle e via, e dimenticarvele, e quella settimana quindi vi riposate meno. Ma se sono un mattoncino di LEGO, potete anche staccarlo dal planner ma vi rimane in mano. Dovete rimetterlo da qualche parte. Se non lo fate, vi resterà comunque lì, visibile, a ricordarvi che dovete trovare uno spazio per riposarvi in qualche modo. Non potete fregare voi stess*, con un LEGO Planner.

Questo è il punto di forza del LEGO: vi consente di pianificare in anticipo quante ore a settimana dedicare a ogni attività, mediante il numero di mattoncini di ogni colore, e a quel punto dovete trovare un posto per ogni cosa. O rendervi conto che non tutto è possibile, che magari dovete ristrutturare la vostra settimana. Questo sistema vi permette di dare valore alle cose, di gestire meglio i vostri limiti. Per esempio, nel mio planner i mattoncini grigi che rappresentano un’attività particolarmente faticosa sono un numero finito: non posso permettermi più di tot ore di ammazzate di fatica a settimana, nella mia vita. Se a metà settimana ho già finito i mattoncini grigi, significa che sto esagerando, e che ho ottime possibilità di finire quella settimana a letto con una riacutizzazione di malattia. Mi devo dare una regolata. I mattoncini rosa che rappresentano il riposo al contrario, sono in dotazione in numero enorme: tanto per ribadire che per una persona come me il riposo non è mai “troppo”. Mi permetto di riposarmi il più possibile, è un bisogno e un diritto. Poi ci sono i mattoncini verdi dello studio, e sapere che ho programmato ore sufficienti di studio ogni settimana mi aiuta a tenere sotto controllo l’ansia da “oddio non ce la farò a fare tutto”. Ce la faccio, mi basta uno sguardo al calendario per capirlo, con tutto quel verde sparso qua e là. Poi ci sono i mattoncini delle uscite con mio marito, o un’amica, quegli spazi piccoli ma assolutamente non negoziabili che devo tenermi per restar sana di mente. Sono lì, di un bel colore che si vede bene, per ricordarmi che ci sono, che ci devono essere. E poi le ore di tutoring con i figli, occuparsi della casa etc. Insomma, ogni cosa importante ha un colore e un posto, nel mio planner LEGO. Quando mi attengo al planner, le settimane scorrono via meglio e io sono meno stanca. Mi ha aiutato molto a riflettere sulla mia gestione del tempo, e a lavorarci su. E credo aiuterebbe anche altre persone a strutturarsi meglio le giornate, a non “lasciare indietro” la cura di sé. Insomma, qualunque sia il vostro assetto e funzionamento neuropsicologico, più LEGO planner per tutti.

L’elefante nella stanza

La vulgata inclusiva vuole che “in fondo siamo tutti diversi”. Io aggiungerei che però alcuni sono più diversi degli altri. Con buona pace di Orwell.

Premetto che quando nelle classi dei miei figli si è puntato all’inclusione in stile soft “ognuno di noi è diverso per qualche verso” senza menzionare diagnosi di nessuno che peccarità la privacy, le cose non hanno funzionato un granché. Io la chiamo inclusione all’acqua di rose. E’ un’inclusione piena di buone intenzioni, intendiamoci, ma timorosa di parlare delle cose come stanno. Un’inclusione che in realtà evita di parlare dell’elefante nella stanza. Cioè che è vero che siamo tutti diversi, appunto, che è una cosa bella e giusta e colorata, ma esistono in ogni ambito persone che sono ancora più diverse. E magari una di quelle persone è proprio lì, in mezzo a loro.

Intendiamoci, l’inclusione all’acqua di rose, come la chiamo io, funziona bene quando il tasso di differenze presenti tra persone in un ambiente non è così esteso e non tocca alcuni punti delicati. E’ un po’ come se dicessimo che è bello avere i capelli castano chiaro oppure castano scuro, non c’è niente di male ad avere occhi nocciola invece che azzurri o verdi, essere alti o bassi etc etc. Tranquilli che così funziona tutto. Ma fate entrare in quella stanza una persona con la pelle scura, qualcosa mai successo prima magari, o evidentemente obesa, e l’asticella di inclusione necessaria si alzerà immediatamente. E funziona così anche quando entra qualcuno nella stanza che non ha un colore o una forma apparentemente diversi, ma ha dei comportamenti diversi. In quel caso diventa più elusivo, l’elefante, ma eccome se c’è.

Questo perché non nasciamo stronzi, anzi secondo me nasciamo con una buona quota di capacità di accettare le variazioni dell’umano essere. Però questa capacità, che viene plasmata anche dall’ambiente, ha dei limiti, e sono dei limiti che vengono fuori quando di troviamo davanti qualcosa di altamente inusuale rispetto alle variazioni dell’ambiente a cui siamo abituati. E’ un meccanismo sociale umano, mi pare anche naturale, e quindi non c’è da condannarlo a priori. Però va capito che lavorarci su richiede qualcosa di più del generico e benintenzionato appello al “siamo tutti diversi in fondo”. Che è come dire “siamo tutti un po’ autistici in fondo”, cosa che fa venire l’orticaria fulminante a qualunque autistico. Perché significa appiattire tutto in una marshmellowsa versione di comodo, che non aiuta i diversi, cerca di farli sparire in un blob rassicurante dove alla fine tutti sono più o meno equivalente come diversità e nessuno è, nziamai! davvero diverso. Ma cosa c’è di male ad essere diverso?

La realtà che molti di noi autistici conoscono anche in prima persona è che so’ tutti boni a dire che siamo tutti diversi e ognuno porta un punto di vista diverso alla discussione e dobbiamo accettare le differenze etc etc, ma questo funziona solo finché uno di noi non fa qualcosa di davvero autistico. Allora scatta spessissimo la disapprovazione, l’etichettatura a “maleducato” magari, l’ostracismo. Perché? Perché siamo abituati a pensare all’inclusione come una robetta facile, come ce l’ha messa giù la maestra delle elementari, un sacco di disegni colorati, belle frasi e buone intenzioni.

Beh no, non funziona così. Inclusione significa guardare dritto l’elefante nella stanza e dire: ok, sei decisamente diverso da come mi aspettavo. E avere a che fare con te non è sempre facile per me. Me l’avevano venduta più facile, questa storia dell’inclusione.

E qui vale la pena anche ricordare cosa dice Theo Peeters: “Se dieci persone si coprono gli occhi, toccano un elefante per dieci secondi e poi raccontano la loro esperienza, probabilmente ognuna di esse descriverà una diversa parte del corpo. Anche l’autismo può essere conosciuto in modi diversi.” In altre parole, quando hai conosciuto un elefante, hai conosciuto un elefante. La volta dopo potrebbe essere diverso e ancora difficile. L’inclusione reale fa paura perché non ci rende più buoni e colorati e marshmallowsi, ma ci cambia dentro e ci toglie punti di riferimento e ci obbliga a crescere. L’inclusione è anche un processo che non finisce mai, perché troveremo sempre nuove diversità, nuovi elefanti da guardare senza paura. Ma è esattamente di questo che abbiamo bisogno, e non solo noi elefanti con i nostri elefantini, ma tutti. L’inclusione è come la verità, ci rende liberi, tutti. E, secondo me, più felici, tutti.

Nelle classi dei miei figli quindi è andata così: abbiamo indicato a tutti l’elefante. L’Asperboy è grandicello e ha provveduto lui a spiegare ai suoi compagni di liceo cos’è l’autismo e come funziona. Per l’Aspiebaby ci ho pensato io, raccontandolo a genitori e ragazzini della sua scuola riuniti in plenaria apposta per ascoltarmi. Da lì le cose sono andate decisamente molto meglio per i miei elefantini.