
La vulgata inclusiva vuole che “in fondo siamo tutti diversi”. Io aggiungerei che però alcuni sono più diversi degli altri. Con buona pace di Orwell.
Premetto che quando nelle classi dei miei figli si è puntato all’inclusione in stile soft “ognuno di noi è diverso per qualche verso” senza menzionare diagnosi di nessuno che peccarità la privacy, le cose non hanno funzionato un granché. Io la chiamo inclusione all’acqua di rose. E’ un’inclusione piena di buone intenzioni, intendiamoci, ma timorosa di parlare delle cose come stanno. Un’inclusione che in realtà evita di parlare dell’elefante nella stanza. Cioè che è vero che siamo tutti diversi, appunto, che è una cosa bella e giusta e colorata, ma esistono in ogni ambito persone che sono ancora più diverse. E magari una di quelle persone è proprio lì, in mezzo a loro.
Intendiamoci, l’inclusione all’acqua di rose, come la chiamo io, funziona bene quando il tasso di differenze presenti tra persone in un ambiente non è così esteso e non tocca alcuni punti delicati. E’ un po’ come se dicessimo che è bello avere i capelli castano chiaro oppure castano scuro, non c’è niente di male ad avere occhi nocciola invece che azzurri o verdi, essere alti o bassi etc etc. Tranquilli che così funziona tutto. Ma fate entrare in quella stanza una persona con la pelle scura, qualcosa mai successo prima magari, o evidentemente obesa, e l’asticella di inclusione necessaria si alzerà immediatamente. E funziona così anche quando entra qualcuno nella stanza che non ha un colore o una forma apparentemente diversi, ma ha dei comportamenti diversi. In quel caso diventa più elusivo, l’elefante, ma eccome se c’è.
Questo perché non nasciamo stronzi, anzi secondo me nasciamo con una buona quota di capacità di accettare le variazioni dell’umano essere. Però questa capacità, che viene plasmata anche dall’ambiente, ha dei limiti, e sono dei limiti che vengono fuori quando di troviamo davanti qualcosa di altamente inusuale rispetto alle variazioni dell’ambiente a cui siamo abituati. E’ un meccanismo sociale umano, mi pare anche naturale, e quindi non c’è da condannarlo a priori. Però va capito che lavorarci su richiede qualcosa di più del generico e benintenzionato appello al “siamo tutti diversi in fondo”. Che è come dire “siamo tutti un po’ autistici in fondo”, cosa che fa venire l’orticaria fulminante a qualunque autistico. Perché significa appiattire tutto in una marshmellowsa versione di comodo, che non aiuta i diversi, cerca di farli sparire in un blob rassicurante dove alla fine tutti sono più o meno equivalente come diversità e nessuno è, nziamai! davvero diverso. Ma cosa c’è di male ad essere diverso?
La realtà che molti di noi autistici conoscono anche in prima persona è che so’ tutti boni a dire che siamo tutti diversi e ognuno porta un punto di vista diverso alla discussione e dobbiamo accettare le differenze etc etc, ma questo funziona solo finché uno di noi non fa qualcosa di davvero autistico. Allora scatta spessissimo la disapprovazione, l’etichettatura a “maleducato” magari, l’ostracismo. Perché? Perché siamo abituati a pensare all’inclusione come una robetta facile, come ce l’ha messa giù la maestra delle elementari, un sacco di disegni colorati, belle frasi e buone intenzioni.
Beh no, non funziona così. Inclusione significa guardare dritto l’elefante nella stanza e dire: ok, sei decisamente diverso da come mi aspettavo. E avere a che fare con te non è sempre facile per me. Me l’avevano venduta più facile, questa storia dell’inclusione.
E qui vale la pena anche ricordare cosa dice Theo Peeters: “Se dieci persone si coprono gli occhi, toccano un elefante per dieci secondi e poi raccontano la loro esperienza, probabilmente ognuna di esse descriverà una diversa parte del corpo. Anche l’autismo può essere conosciuto in modi diversi.” In altre parole, quando hai conosciuto un elefante, hai conosciuto un elefante. La volta dopo potrebbe essere diverso e ancora difficile. L’inclusione reale fa paura perché non ci rende più buoni e colorati e marshmallowsi, ma ci cambia dentro e ci toglie punti di riferimento e ci obbliga a crescere. L’inclusione è anche un processo che non finisce mai, perché troveremo sempre nuove diversità, nuovi elefanti da guardare senza paura. Ma è esattamente di questo che abbiamo bisogno, e non solo noi elefanti con i nostri elefantini, ma tutti. L’inclusione è come la verità, ci rende liberi, tutti. E, secondo me, più felici, tutti.
Nelle classi dei miei figli quindi è andata così: abbiamo indicato a tutti l’elefante. L’Asperboy è grandicello e ha provveduto lui a spiegare ai suoi compagni di liceo cos’è l’autismo e come funziona. Per l’Aspiebaby ci ho pensato io, raccontandolo a genitori e ragazzini della sua scuola riuniti in plenaria apposta per ascoltarmi. Da lì le cose sono andate decisamente molto meglio per i miei elefantini.