Questa non è un’esercitazione

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Siamo reduci da una serata melt, ma ci svegliamo presto. E andiamo a prendere il treno, l’Asperboy ed io, perché lui ha una visita. In una città diversa, ma non si può fare altrimenti, lo specialista c’è solo lì, quindi il Consiglio di Guerra si è riunito ed ha messo a punto un’operazione Blitzkrieg per andare, vincere e tornare. In treno, due ore e mezza all’andata, pranzo, visita, due ore e mezzo al ritorno. Possiamo farcela.
I piani sono stati stampati e visionati, tutto è calcolato al minuto o quasi: che treni prenderemo, quanto intervallo tra un treno e l’altro, dove mangeremo, come ci sposteremo, tutto. Ho uno zaino pieno di snack, acqua, batterie di riserva, mi mancano solo le razioni K.

Partiamo. Il treno è strapieno, è estate, vanno tutti in vacanza. L’Asperboy inizia quasi subito a stare male, troppa luce, troppa gente, è un regionale di quelli che vanno coi finestrini aperti perché l’aria condizionata è un optional. Cerco di proteggerlo come posso, è sull’orlo di una crisi. Devo chiedere alle persone che si avvicinano per sederglisi accanto di scegliere per favore un altro posto, se possibile, perché ho un ragazzo autistico che non sta  bene. Mi sento in difficoltà, capisco che non è una cosa bella ma non so cosa fare. La maggior parte accetta, anzi si dimostra comprensivo, alla fine però una ragazza con un bambino, giustamente in fondo, si siede con la benedizione del capotreno. Cerco di gestirla scambiando posto con mio figlio in modo che si senta più riparato, nell’angolo, lo distraggo parlando. Ok, è fattibile. Il viaggio prosegue e per fortuna il bimbo piange poco, ogni rumore o strillo acuto vedo Asperboy incassare la testa nelle spalle con una smorfia di sofferenza. Maledette ipersensorialità.

Scendiamo finalmente a Santa Maria Novella, ed è come scendere nel girone degli affollati. C’è tanta luce impietosa, è estate, fa caldo, c’è afa, ma soprattutto siamo circondati da una fiumana di persone che invade ogni spazio, un rumore assordante ci sommerge. L’Asperboy si trascina, sbanda, lo vedo rallentare, il viso si contrae. Si ferma, mi guarda sconsolato e lì, in piedi in mezzo alla folla, si mette a piangere. Non cerca nemmeno di scappare, non c’è un posto dove andare, piange e basta. Non so che fare. Non posso toccarlo o abbracciarlo come mi verrebbe istintivo, non lo sopporterebbe, quindi gli chiedo di prendermi la mano e cerco di guidarlo verso il binario dove ci aspetta il Frecciarossa pregando che arrivi alla svelta. Spero che almeno quello sarà un treno più silenzioso. Mi illudo, è estate appunto, ed anche il Frecciarossa è pieno zipillo. Ma accade il miracolo: abbiamo due posti separati, e accanto a lui si siede una ragazza di qualche anno più grande, una calabrese estroversa e sorridente degna di un corto di Casa Surace, che lo saluta come se lo conoscesse e attacca bottone. Cerco di mimetizzarmi con il mio sedile e per quaranta minuti assisto deliziata e incredula, dal mio posto, allo spettacolo bellissimo di mio figlio che chiacchiera con una sconosciuta, le fa vedere i suoi disegni, le fa perfino provare la sua tavoletta grafica ed il suo sacro computer! Alla fine si salutano e lui scende tutto contento perché è riuscito anche ad avere il suo numero di telefono. Sconosciuta ragazza, grazie di esistere! Ci hai illuminato la mattinata.

Adesso è ora di pranzo, e andiamo a mangiare, in attesa dell’ora dell’appuntamento. Passata l’euforia per l’incontro sul treno, l’Asperboy torna nervoso, annoiato, e la noia è MALE, lo sappiamo. Dicono che l’ozio sia il padre dei vizi, ma la noia è la madre dell’ansia, per un autistico. Quindi mi gioco tutte le carte di chiacchiere o argomenti che spero siano interessanti per reggere ancora un po’, sudando freddo. Guardiamo le vetrine, entriamo a dare un’occhiata all’Apple Store, le tento tutte per tirare ancora un po’. E finalmente arriva l’ora giusta, prendiamo l’autobus, arriviamo allo studio.

Il dottore non c’è.
Si scusa. Un impegno improvviso fuori città. Non abbiamo potuto avvertirvi. Ci spiace.

No guardi, lei non ha capito. Ho portato qui un ragazzo autistico di quattordici anni, viviamo a tre ore da qui noi, ha idea, HA UNA CAZZO DI IDEA DI COSA SIGNIFICHI?
L’Asperboy inizia a ripetere parole, ecolalia, è come vedere la lancetta del manometro che va verso la zona rossa, tra poco qui la pressione farà saltare il tappo.
Capisco che non posso ammazzare nessuno, anche perché non servirebbe a niente, il dottore non c’è, pace, salviamo il salvabile. Mi giro verso la segretaria, le dico che adesso la priorità è calmare mio figlio e poi penseremo a cosa fare, mi serve una stanza tranquilla dove stare. Arrivati a questo punto pure se chiedessi la luna lei dovrebbe iniziare a cercare il telefono della NASA e lo sa, non è nella posizione di discutere, e quindi mi danno subito una stanza tranquilla, acqua, caramelle, quello che voglio.

Decido di giocarmi la carta della chiarezza e della richiesta di collaborazione, guardo mio figlio in faccia e gli dico: la situazione è questa, è andata così. Non ci posso fare niente. Cerchiamo di tornare a casa prima possibile. Non c’è altro da fare. Dobbiamo andare a casa, NAU. Capisce. Accetta.
Mi attacco al telefono e chiamo mio marito, gli dico di modificarci le prenotazioni per il rientro con il primo treno disponibile. Usciamo, chiamo un taxi, niente autobus stavolta, il rientro lo facciamo più comodo e veloce possibile. Potessi chiamerei un jet privato. Il centralino taxi mi lascia in attesa per dieci minuti, alla fine nel deserto estivo passa un taxi e lo chiamo al volo. Arriviamo alla stazione, prendiamo il treno. A Santa Maria Novella non sento storie e vado dritta alla sala per l’accoglienza disabili, che è un luogo tranquillo, silenzioso, vuoto. Sono pronta a saltare alla giugulare di chiunque mi dica che non posso stare lì, ma l’Asperboy seduto con sguardo vitreo che ogni tanto si prende a schiaffi da solo si vede che è sufficiente per farci lasciare in pace. Poi prendiamo il regionale,  strapieno ovviamente, siamo stanchi, ma stiamo andando a casa. Domani si sta a casa, al buio, in camera, lo so. Probabilmente anche dopodomani. Non ce la faccio più, quando si arriva?

E poi l’Asperboy sorride timido e me lo dice, quello che in fondo so già: che è stato un incubo atroce ma è stato anche bello incontrare quella ragazza sul treno, che se non fosse uscito di casa e non avesse affrontato tutto non l’avrebbe conosciuta.

E alla fine di tutto allora forse ne è valsa la pena, e una certezza splende luminosa al di sopra di tutta la stanchezza, di tutte le difficoltà, tutti gli ostacoli: che ce la possiamo fare, che siamo proprio bravi, e possono anche succedere cose belle.
E che la prossima volta però si va in macchina, cazzo.

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