
Le emozioni, nell’autismo, sono un campo piuttosto delicato. Terreno accidentato, a tratti oscuro. Soprattutto perché le persone autistiche, tendenzialmente, non ne vogliono parlare e/o non le fanno vedere. E si pensa che non le abbiano, ma no, le abbiamo come chiunque anche se in modo diverso da chiunque, probabilmente.
Una volta, parlando con la mia psicoterapista, le ho detto che le emozioni sono un po’ come la biancheria intima, per un’autistica come me: non è che vai in giro a farla vedere a tutti. Attenzione, non è che significa che non sono importanti, la biancheria intima è una parte importante e fondamentale dell’abbigliamento, però… è intima, appunto. I miei figli sono come me, se vuoi fargli un dispetto chiedigli di scrivere un tema su “come mi sento quando…”. Chiedimi qualcos’altro. L’autistico parlerebbe per ore e ore del suo interesse del momento, ma non delle sue emozioni. A volte mi pare che le persone là fuori funzionino un po’ al contrario, e insomma, non ci capiamo.
Le differenze potrebbero essere che gli autistici tendono ad essere amimici, buona parte della loro vita emotiva si svolge dentro la loro testa, ma non affiora facilmente alla superficie con espressioni o mimica corporea. Se mi guardate mentre guardo un film comico probabilmente mi vedrete estremamente seria e composta. E alla fine magari vi dirò: mi sono divertita tantissimo. E dirò sul serio eh.
L’altra differenza è che per le persone autistiche, lo sappiamo, percepire e comprendere appieno la propria emozione può non essere facile. Si tratta di alessitimia, cioè non avere facilmente le parole per le emozioni (attenzione, non è “non avere le emozioni, sono le etichette per definirle che mancano). Sappiamo che sta succedendo qualcosa, ma non sappiamo esattamente cosa. L’integrazione di quello che proviamo può richiedere tempo, l’emozione affiora più lentamente e richiede tempo per essere identificata. Il classico caso è quando qualcuno ci fa uno sgarbo, e non reagiamo subito, è come se arrivasse tutto al rallentatore. E non arriva tutto subito chiaramente, arriva nel tempo, come se una nebbia si diradasse gradualmente su quel che c’è.
Qual è il problema di questo processo? Il problema è che l’emozione ha uno scopo, proprio come la biancheria intima. La biancheria intima protegge parti più vulnerabili e le sostiene, e le emozioni hanno una loro utilità: ci fanno capire di cosa abbiamo bisogno. Questa è stata un’epifania quel giorno nello studio della mia psicoterapeuta, perché fino a quel momento ero piuttosto abituata ad avere emozioni, a parlarne razionalmente, a analizzarle se vogliamo, ma anche a non capire a che cavolo servissero, evolutivamente parlando. Ecco, servono per capire che bisogno abbiamo noi rispetto alla cosa che ci ha scatenato l’emozione. Ci ha scatenato paura? Significa che abbiamo bisogno di proteggerci da quella cosa, è pericolosa. Ci ha scatenato felicità? E’ una cosa che ci fa star bene, ne vogliamo ancora. Ci fa arrabbiare? Ci dobbiamo difendere, quella cosa evidentemente non è buona per noi in qualche modo. Potete sostituire cosa con persona o evento, il concetto è sempre quello. Se capisci che emozione ti suscita veramente una cosa, una persona, un evento, allora puoi trovare la reazione giusta da mettere in campo per il tuo benessere e la tua autoconservazione. Lo so, pare la scoperta dell’acqua tiepida, ma vi assicuro che non è così scontato, nel mio mondo.
Per questo, anche, è importante che una persona autistica impari ad avere a che fare con le proprie emozioni, a riconoscerle bene. Perché questo ti rende più funzionale, ti fa stare meglio in ultima analisi. Ti aiuta anche a non essere preda di emozioni troppo forti a cui non sai dare un nome e quindi non sai né che farci né che fare di te stessa. E a dare all’emozione il giusto posto nel processo continuo di relazione con l’ambiente in cui vivi. Processo in cui hanno posto le emozioni esattamente come la razionalità, ognuno con il proprio ruolo e momento. Perché non c’è niente di peggio quando sbagliate a vestirvi la mattina e mettete le mutande sopra i pantaloni, anziché sotto.
Ecco perché mi sento estremamente a disagio quando succede una cosa come quella di oggi: stavo guardando la conclusione del convegno Erickson sulla qualità dell’inclusione scolastica, un meraviglioso regalo fattomi da un’amica (a proposito, veramente un bellissimo regalo, Babbo Natale prendi nota per il futuro). E l’ultimo intervento è di un docente famoso in tutta Italia per le sue lezioni pubblicate anche online come video per flipped classroom. Un innovatore insomma, un figo. E lo dico senza ironia, è così.
Però oggi, al convegno, ha presentato una poesia scritta, a quanto pare, da un ragazzo “con gravi problemi”, e consegnatagli durante un incontro con la scuola. La legge, spiegando quanto lo ha fatto piangere. Ora, questo intervento per me è problematico sotto due aspetti: il primo, che non è dato capire se veramente quella poesia l’abbia scritta quel ragazzo, perché non si capisce di che tipo di “problema mentale grave” si parli, il ragazzo viene descritto come uno che non parla, e quindi il dubbio di essere di fronte alla solita comunicazione facilitata è lecito. E qui già si spalancherebbe un mondo…
Ma il secondo è che, chiunque abbia scritto quella poesia, nel momento in cui viene presentata a una platea e in quel modo ci troviamo di fronte a del puro inspiration porn. Quello che punta alla pancia del pubblico, non al cervello, punta a suscitare emozioni che manco Carolina Invernizio. C’è tutta la retorica del disabile gigante buono con cuore da bambino, che ha un mondo interiore sorprendente (sorprendente per chi?). Per un nobile scopo, sia chiaro, cioè favorire, richiedere inclusione ed empatia per chi ha problemi gravi, appunto. Ma la mia domanda è, bisogna proprio appellarsi alla biancheria intima, per chiedere qualcosa che è un diritto? Far vedere la biancheria intima propria e altrui, in pubblico, anzi sventolarla in pubblico, perché qualcosa si muova nelle altrui capocce? Io, siccome che so’ autistica, lo trovo imbarazzante. Le mie emozioni servono a me per capire me stessa e la situazione in cui sono, veramente vanno fatte vedere a tutti perché a loro volta loro si sentano emozionati e decidano di farci qualcosa? Ma non è più semplice far capire cosa è giusto e cosa no?
Le persone disabili, che siano disabili cognitive, fisiche, psichiche o tutto insieme, hanno diritto, fottutamente diritto, all’inclusione, e questo senza dovervi far commuovere, senza dover sventolare la loro biancheria o farvi tirar fuori la vostra, pensate a cosa ne avrebbe detto vostra nonna e tenetevela dentro.
Ne hanno diritto, all’inclusione, perché esistono, e ne hanno diritto pure se non sono commoventi, anzi pure se magari sono dei rompicoglioni, esatto, hanno diritto pure ad essere dei rompicoglioni come la sottoscritta, o delle persone meschine, poco interessanti, normali. Insomma, umani, non santini di ispirazione. Non è per questo che sono al mondo, non per farvi sentire migliori, non per rendervi migliori, sono lì per essere sé stessi, come tutti. Quindi riconosciamogli i loro diritti all’interno della scuola senza bisogno di sventolar mutande.
EDIT: una mia amica ha postato questo commento al post sulla mia pagina FB, e io le ho chiesto il permesso di pubblicarlo perché spiega molto bene una delle conseguenze dell’ispiration porn:
“E invece c’è arrivato anche mio figlio di 13 anni che per ottenere qualcosa dobbiamo quasi fare pena, fare insomma leva sull’aspetto emotivo e non su quello vero dei nostri bisogni. Tieni anche conto che noi sulla carta non siamo disabili (solo sulla carta, poi ci sarebbe da incazzarsi un attimo che una commissione abbia deciso sulla base di poche righe scritte e di un colloquio di 5 minuti con un ragazzino che fa un masking mostruoso che non aveva diritto ad avere quello che secondo me gli spettava) e quindi è ancora più difficile non solo ottenere i giusti aiuti ma anche far capire quanto è pesante e difficile la vita per noi a volte. E allora le mutande le facciamo vedere, anzi a volte le sventoliamo a mo di bandiera bianca fuori dal finestrino della macchina per avere un minimo di attenzione ed è davvero umiliante. “