
Oggi è successa una cosa che ha fatto risalire su, a mo’ di peperonata, una questione che angustia la mia digestione da anni. E cioè: quello che dicono di noi. Noi autistici, noi famiglie di autistici, o comunque neurodiverse. Potreste dire: ecchissenefrega, evita la gente che non capisce e pensa male, e festa fatta. E ok, è buono e giusto, un chissenefrega non ci sta mai male. Però ci sono ambiti dove questo assume dei contorni molto più spiacevoli e destabilizzanti, ed è il setting terapeutico.
Mi spiego: ormai lo avrete capito, io sono quella che va dove non deve andare e sta dove non dovrebbe stare. In particolare, sono sempre stata la genitrice imbucata – pagando eh – in contesti come le giornate di Reggio Children, un master sui disturbi dello spettro autistico, svariati corsi di tutoring e didattica, altri master, altri corsi, insomma in contesti dove si riuniscono specialisti del settore infantile ma nessuno si aspetta che ci sia un genitore. Quindi io ho potuto ascoltare come parlano gli addetti ai lavori tra di loro, di noi autistici e famiglie di autistici, quando pensano di esse’ fra amici e non li senta nessuno esterno.
Capiamoci: ho trovato moltissima professionalità, e quindi discorsi corretti, equilibrati, rispettosi. Ma ho trovato a volte anche dei professionisti che davanti a noi, nello studio, fanno sicuramente una faccia, e dietro ne hanno un’altra. E quando pensano di essere solo tra colleghi parlano di noi, intesi come famiglie e individui, in termini francamente sminuenti, paternalistici, patologizzando tutto quel che diciamo o facciamo. Raccontano quel che abbiamo detto senza far nomi, è ovvio, ma con toni alla signoramialeinonhaidea. Mettono in guardia nei nostri confronti. E’ una cosa allo stesso tempo straniante, perché non riesco proprio a riconoscere in queste uscite i genitori imperfetti ma umani e pieni di voglia di aiutare i loro figli che conosco, che incontro nella mia vita sia online che fuori, quelli che sopportano da anni il peso delle voragini di inadeguatezza del sistema, altro che essere loro il problema… è una cosa anche dolorosa da sentire con le proprie orecchie, per il giudizio e la nessuna empatia che sottende, ma che fa anche parecchio incazzare. A me almeno fa incazzare. E dovrebbe far incazzare anche i loro colleghi, però, perché il risultato almeno per quel che mi riguarda è che la fiducia nella categoria viene continuamente messa in discussione. Che ne so, io autistica che c’ho pure difficoltà a capire i segnali non verbali, che quella psicologa tanto carina che ho davanti, a cui mi sono rivolta per aiuto per i miei ragazzi, perché ho bisogno di aiuto appunto, e che davanti mi dice che sono una brava madre non lo faccia per blandirmi, e poi dietro le mie spalle non va a usarmi come esempio di maTre patologizzante coi suoi colleghi o in una lezione sul tema “come ti salvo il poro figlio dalla madre troppo ansiosa?”. Magari citando le parole che le ho detto, e che erano appunto un’espressione di disagio, o una richiesta di aiuto, come prova del nostro essere “distorti”, come m’è toccato sentire? Già, che ne so?
Insomma, detta pianamente, a me ‘st* professionist* così disinvolti con la vita altrui fanno un po’ schifo pure umanamente, non solo dal punto di vista professionale.
In realtà, questo, è un discorso che andrebbe a investire tutta la classe medica in generale e la sanità. Tu personalmente quanti medici impreparati o arroganti hai conosciuto in vita tua? Faccio una stima: un’infinità! Troppi! Che guarda caso è la stessa “cifra” della mia esperienza personale. Che guarda caso è la stessa cifra di ogni persona che sta su questo mondo…
Seguirebbe un discorso complesso su come è nata la cosiddetta medicina ufficiale che si è affermata nei governi del mondo, ma è un discorso lungo che io non ho voglia di scrivere e probabilmente tu di leggere…
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Impreparazione e arroganza non sono necessariamente la stessa cosa, ma è vero, in una certa misura ho potuto toccare con mano che durante gli studi di medicina a volte si viene sostanzialmente addestrati a dubitare del paziente, e figuriamoci dei genitori del paziente quando si tratta di un bambino. L’alleanza terapeutica quando c’è sfiducia di fondo parte male.
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