Il dolore è una strana bestia, per molti autistici. Una bestia difficile da definire. Ho già parlato della mia difficoltà con il dolore fisico, ma penso che valga la pena approfondire il discorso.
Il dolore non è solo un fatto fisico, è un fatto anche emotivo. Molto emotivo: avere un dolore ci può far sentire spaventati, impotenti, ansiosi, arrabbiati, irritabili, tristi, a volte disperati. C’è sempre una coloritura emotiva legata al dolore. Ma cosa succede, se questo legame non viene riconosciuto? O la sua causa non viene identificata bene? Si possono scambiare fenomeni di origine fisica con problemi emotivi e le loro manifestazioni comportamentali.
Io credo che molti autistici, di qualunque funzionamento, abbiano difficoltà a riconoscere il dolore come, appunto, dolore, e a collegarlo al proprio stato d’animo. Non si tratta di anestesia (esistono anche forme di anestesia, cioè non percezione sensoriale del dolore, negli autistici, ma non parlo di questo). E non so se questo fenomeno dipenda dalla difficoltà a riconoscere ed etichettare correttamente lo stato d’animo stesso, cioè l’alessitimìa, che è una caratteristica dello spettro, oppure proprio da una difficoltà legata alla percezione stessa del dolore, o al legame specifico tra le due cose. Quello che so è che questa difficoltà viene spesso fraintesa o sottovalutata. Si dice spesso, ad esempio, che un autistico a basso funzionamento, soprattutto non verbale, può manifestare problemi comportamentali legati ad un dolore fisico, un maldidenti ad esempio, o un dolore addominale, che non riesce a comunicare a causa delle sue limitazioni con il linguaggio o della sua disabilità cognitiva, e che quindi fornire strumenti di comunicazione alternativa alla persona è utile per aiutare a prevenire peggioramenti comportamentali oltre che veri e proprio danni fisici. Ma se questo problema dipendesse non solo dalle difficoltà comunicative, ma anche da una difficoltà specifica della persona autistica a capire correttamente che ha un dolore, e che sta male per via del dolore? Perché in quel caso bisognerebbe stare con le orecchie appizzate e gli occhi bene aperti anche dopo aver insegnato modi di comunicare il dolore adeguato, e farlo anche se la persona ha apparentemente capacità cognitive e comunicative nella norma: potrebbe non capire e non parlare del suo dolore lo stesso. Lo so che il dolore sembra una cosa facile da capire e valutare, immediata, evidente, ma la mia esperienza mi dice che non è affatto così.* Io non sono in grado, e me lo sono dimostrata ampiamente, di capire che sto male, malissimo, per via del dolore. Non so quantificare il dolore correttamente, intanto, la famosa scala da 1 a 10 che usano durante il triage nei pronto soccorso per capire a che livello sta male il paziente, con me è fuorviante al ribasso. Tenderò a sottovalutare il dolore, a sparare numeri a caso per far contento il clinico di turno, ad avere anche un atteggiamento ingannevole, cioè apparentemente controllato e con facies quasi amimica. I miei cambiamenti sono soprattutto emotivi: posso essere appunto triste, o arrabbiarmi per un nonnulla, rispondere male, vedere tutto nero e senza rimedio, avere voglia di scappare, rinchiudermi nel mutismo. Dentro sto morendo senza capire perché, o dandomi spiegazioni fantasiose degne della peggior psicanalisi…
Ora, dopo un certo numero di passaggi al pronto soccorso negli ultimi anni la mia capacità di riconoscere in che stato sono è decisamente migliorata, ho imparato a capire come funziono, ma è un passaggio più razionale che sensoriale ed emotivo. Ora so che posso diventare estremamente irritabile, posso diventare tristissima, posso andare in ansia, e dirmi che magari è un problema fisico, ma il legame di questo con quella sensazione fisica bruttissima e confusa che ho in contemporanea mi resta stranamente inafferrabile ed elusivo. Come se il dolore dentro di me fosse in luoghi che non riesco a raggiungere e illuminare completamente con la coscienza. E’ più una deduzione la mia, di qualcosa che avviene dentro di me, che un reale contatto con quel che avviene.
Questo è stato particolarmente evidente, tra l’altro, quando sono stata operata recentemente di colecistectomia, e nel giro di poco mi è stata diagnosticata una malattia autoimmune che tra le altre cose, comporta la presenza di dolori cronici diffusi e migranti. Tolta la spina irritativa di una colecisti perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, e instaurata una terapia per contenere i fenomeni autoimmuni, ho avuto un nettissimo, repentino miglioramento dell’attività generale. E dell’umore. I miei figli sono stupiti da quanto adesso mammina sembra tornata quella di anni fa, con un inossidabile buon umore e serafica calma di fronte ai peggiori rovesci comportamentali altrui. Ho iniziato di nuovo a scrivere e a studiare come non riuscivo a fare da anni. Ho capito, una volta di più, che ero piena di dolore fisico senza rendermene conto. Era lì sotto il pelo dell’acqua della coscienza, che mi sedeva sul petto e mi offuscava subdolamente la vita, senza che io lo riconoscessi. Come al solito. Non si impara mai abbastanza a riconoscerlo, il bastardo.
* ricordo sempre quando scoprimmo che mia madre, una probabile Aspie ante litteram, aveva una forte periartrite su base autoimmune. Non ne aveva fatto parola con nessuno, portava avanti apparentemente come al solito le sue faccende, e un giorno poco prima della cena domenicale svenne davanti a noi: una reazione vasovagale dovuta al dolore. Continuò a non dire quasi niente mentre la soccorrevamo e cercavamo di capire cosa fosse successo, e non voleva nemmeno andare in ospedale. Scoprimmo di cosa si trattava solo al pronto soccorso.
(foto da Deviantart)
Un pensiero riguardo “Hello pain my old friend…”