
C’era una volta un ragazzino. Un ragazzino con più problemi che capelli in testa, apparentemente. Autistico, APC, ansia oltre i livelli di guardia, umore sotto il livello del mare, arrabbiato, sfiduciato. E’ intelligente, non si discute, ma a scuola non sanno da che verso prenderlo. Alle elementari facciamo il viottolo con il reparto di neuropsichiatria e con il pronto soccorso per gli attacchi di panico, contiamo gocce di calmante in un bicchierino ogni mattina, un anno sì uno no un esaurimento nervoso. Lui, non noi. Alle medie, ogni anno una lotta per riuscire anche solo a farlo alzare la mattina, e farlo restare a scuola almeno quelle due o tre ore, spesso fuori dall’aula, o qualche giorno di fila. Ogni anno da marzo aprile in poi ci trasciniamo verso la fine dell’anno scolastico sui gomiti, tra crisi, assenze, pianti e l’angoscia di chiedersi se ce la farà a passare, con il monte assenze sforato alla grande e verifiche discontinue. Metà della seconda ce la facciamo con le maniglie delle finestre di casa tutte rimosse, perché lui a volte vorrebbe buttarsi di sotto, e non è una metafora. Ormai conosciamo la legislazione sull’inclusione scolastica meglio della segreteria didattica, perché a volte sembra una guerra, e in guerra ci devi andare con l’intelligence giusta. Lui lo vedo come incassa la testa nelle spalle e si irrigidisce già nell’atrio della scuola, preparandosi a resistere più a lungo che può. E quando non ce la fa più, cioè spesso, ha una delle sue crisi, lancia cose, a volte mena, scappa. C’è chi capisce ma non sa come aiutarlo, chi lo considera un pericolo pubblico. Qualcuno me vuole pure mena’ (a me, perché “lui non posso perché è minorenne”, sic). Io mi sento un verme perché ogni anno gli ho promesso che quest’anno, questa volta sarebbe andata meglio, che i prof avrebbero capito, e lui ogni anno ha cercato di credermi e nonostante tutto è tornato a scuola determinato a riprovare, e invece ogni anno siamo sempre peggio.
Finiamo le medie, praticamente strisciando verso la meta, che è questo benedetto diploma di stato, e la scelta è obbligata, liceo artistico perché l’unica cosa che veramente lo appassiona e per cui ha un talento straordinario è il disegno.
Ci dicono bene del liceo artistico locale. Andiamo in avanscoperta. Ci troviamo davanti una referente del sostegno che ci chiede tutto quello che secondo noi può essere utile per facilitare il passaggio. E mentre ascolta prende appunti.
Questa volta la mettiamo giù chiara: devono ascoltarci, non possono farcela da soli, lo abbiamo visto anche troppo bene in passato. Mettiamo a disposizione psicologa, tutor, competenze della famiglia, tutto. Mi organizzano non uno, ma due incontri con tutto il futuro corpo docente. Tutti, ho detto, non solo gli insegnanti di sostegno. Gli insegnanti si siedono dalla parte degli studenti, io sono alla cattedra e per quasi due ore parlo di mio figlio e loro mi ascoltano. Gli rovescio addosso una quantità di slide e informazioni su tutto quello che c’è da sapere per iniziare, gli passo il file, gli consegno i pdf stampati. Li passano a chi non è riuscito ad esserci. Saprò dopo che anche i collaboratori scolastici hanno voluto leggerli, quei pdf, per capire meglio chi avevano di fronte. Iniziamo a capire che non è una scuola come tutte le altre.
Mio figlio chiede che in questa nuova scuola usino il nome e i pronomi che si è scelto. L’ho già raccontato, vado a scuola e chiedo se è possibile, per il suo benessere psicologico, chiamarlo come vuole. La dirigente scolastica mi dice che in tutti i registri e documenti interni, compiti etc. useranno quel nome, solo i documenti ufficiali dovranno avere ancora il vecchio nome. Quando glie lo diciamo mio figlio inizia anche lui a pensare timidamente che forse questa volta sarà diverso davvero. Poi il primo giorno di scuola si presenta con il suo completo verde stampato a carte da gioco, i capelli blu, le cuffie e il computer da cui non si stacca mai. Capisco che ha deciso di rischiare il tutto per tutto: lo devono vedere subito per quello che è, o la va o la spacca. Noi a casa a incrociare le dita, col fiato sospeso.
La tutor specializzata in processi di apprendimento neurodiversi si mette in contatto con gli insegnanti di sostegno assegnati. Iniziano una formazione a distanza, per telefono, inizialmente spessissimo, sì anche fuori dell’orario di lavoro, è una scelta dell’insegnante e noi glie ne siamo grati, sono tante le domande e i dubbi, le cose nuove. Non era mai successo che veramente qualcuno si mettesse seriamente in discussione e accettasse di imparare, e applicasse a scuola le modalità necessarie per l’apprendimento dei miei figli, senza voler fare di testa sua.
Lo ammetto, siamo tutti in ansia a casa, io cerco di non rompere troppo le scatole ma ogni tanto mando una mail o un messaggio per spiegare meglio il meccanismo di qualcosa che è accaduto a scuola, o chiedo un colloquio per chiarire. Una di queste mattine uno degli insegnanti di sostegno di mio figlio si siede con me e mi dice una cosa che non scorderò mai: signora, abbiamo cinque anni davanti, questo è un processo, piano piano arriverà anche lui a stare in classe in modo continuativo. Sento che l’ansia finalmente si allenta un po’, è vero, è un processo, ce lo eravamo dimenticato, finora tutti si aspettavano da noi risultati e alla svelta, questi qui invece sembrano disposti a farsi tutto il percorso con noi verso la meta, non hanno fretta. Molti docenti anche di sostegno sono di ruolo, capisco che sono abituati tutti a fare lavoro di squadra. Cercano di coprire tutte le basi, di fare in modo che nessun ragazzo o ragazza resti escluso, e questo anche se non ha una certificazione. Nessuno deve restare indietro, Ohana applicato alla scuola. Più di una volta vedo una prof di mio figlio fuori dal cancello a chiamare i ragazzi in ritardo che stanno probabilmente progettando di fare brucia. Mi piace questa scuola, mi piace questo modo di gestire le risorse senza fare compartimenti stagni. E’ una vera rete umana, non solo una scuola.
Da lì, viene da dire, il resto è storia. Il nostro ragazzo è cresciuto, con l’aiuto di tutto un villaggio. Il primo anno l’obiettivo era riuscire a farlo restare a scuola. Ci siamo alleati; loro, gli insegnanti, gli hanno fatto capire che non si sarebbero spaventati, non lo avrebbero giudicato, volevano capire come “funzionava” questo ragazzo. E lui ha smesso di scappare, ha iniziato a farsi conoscere. Ogni tanto mi chiamavano, io andavo a scuola, magari ci parlavo per tranquillizzarlo, poi al telefono, poi sempre meno. Ha iniziato a stabilire dei rapporti con i suoi compagni, e con i suoi professori. Con alcuni c’è stato un sorprendente innamoramento reciproco, direi.
Il secondo anno ha smesso di andare a scuola con il computer, la sua coperta di Linus. Non ne aveva più bisogno, la scuola era il suo luogo, ha iniziato ad amarla davvero. I professori accettavano i suoi tempi, le sue stanchezze, le sue verifiche rimandate. Le sue docenti di sostegno sempre in contatto con la tutor, e credo sia stato un arricchimento per tutti, un’occasione per imparare cose nuove e utili anche per gli altri ragazzi. Lavoro di squadra, lavoro di squadra sempre.
Oggi siamo alla fine del terzo anno, con risultati ottimi. Siamo felici, lo dico senza paura di esagerare. Domani chi lo sa, ma oggi siamo proprio felici. La scuola, questa scuola, ci ha restituito il ragazzino che conoscevamo, quello che si addormentava sorridendo da piccolo. I suoi professori ci hanno detto delle cose bellissime, soprattutto ci hanno detto che averlo in classe è un valore aggiunto, per l’attenzione e la partecipazione, per le domande, per i ragionamenti, una risorsa per tutti con i suoi punti di vista (neuro)diversi.
Per me questa è la scuola in cui credo fortemente: una scuola dove tutti stanno bene e hanno la loro giusta soddisfazione per l’impegno, e nessuno si chiude nelle proprie esigenze e nel proprio punto di vista o ruolo. Noi siamo contenti, mio figlio è stanco ma felice e fiero di sé, i suoi professori possono essere fieri di sé stessi e dell’enorme lavoro che hanno fatto. Hanno preso un ragazzino che a scuola conosceva solo il fallimento e sono riusciti, siamo riusciti tra tutti a ribaltare una storia che sembrava già scritta.
E quindi qual è il messaggio di questo post troppo lungo, forse troppo emotivo, che è un racconto, un ringraziamento e anche uno sfogo? Il messaggio è che lo so che è difficile, e a volte vai avanti contro tutte le evidenze solo perché un genitore non può mollare mai, e che a scuola a volte sembra impossibile trovare lo spazio per i nostri ragazzi. Ma non è una favola quella che vi ho raccontato, è tutto vero. E’ possibile, ci sono storie come la nostra che lo dimostrano, quindi non permettete a nessuno di farvi credere che non è possibile e che chiedete troppo. Non sono favole: la scuola può darvi risposte, gli insegnanti possono allearsi con voi e fare gioco di squadra, e scuole e insegnanti capaci di realizzare le favole esistono. Non accettate niente di meno, per voi e per i vostri ragazzi.