La favola di Cenerentola la conosciamo tutti: la fata madrina la manda al ballo con un vestito che Lady Gaga scansati, e una fornitura di carrozza cocchieri e lacché che manco Madonna quando si sposta per i concerti. Tutto perfetto? No, ovviamente, c’è un però in tutta quest’abbondanza: a mezzanotte tutto tornerà come prima. La carrozza tornerà una zucca, i cavalli che la trainano topolini, il cocchiere un segugio, il vestito un sacco di stracci. Mi raccomando, ricordati! Sì sì, certo, tranquilla fata! Solo che Cenerentola al ballo si distrae a ballare, e non si rende conto che il tempo passa. Quando scocca la mezzanotte lei è ancora lì a fare gli occhioni dolci al principe e le tocca darsi a una fuga precipitosa giù per le scale, senza poter dare manco spiegazioni, per ritrovarsi poi poco più in là col culo per terra, letteralmente, senza una delle Jimmy Choo di cristallo e con la prospettiva di farsi qualche km a piedi per rientrare a casa, lei i topi e il segugio. Non proprio il miglior finale di serata della sua vita, diciamo.
Ecco, andare in giro con l’Asperboy per lungo tempo è stato un po’ così. Perché quando si ha per le mani un piccolo autistico, magari non diagnosticato, non ci si rende conto chiaramente che lui si sta avvicinando al punto di rottura, quando il sovraccarico sensoriale e cognitivo o emotivo diventerà troppo da tenere a bada per lui. Questo in qualche modo ci è stato evidente fin da piccolo, perché lui non aveva una chiara transizione da “sono fresco e riposato e mi sto divertendo” a “STO PER ESPLODERE ANZI ESPLODO”, insomma non c’erano segnali premonitori, da 0 a 100 in pochi secondi. O se c’erano erano piuttosto lievi, dovevi avere veramente le antenne appizzate per coglierli. Infatti io vivevo in costante stato di allerta, quando uscivamo da casa, perché dovevo poter cogliere quei segnali premonitori se c’erano. E quando li vedevo, non significava “ah ok, è un po’ stanco, cominciamo a pensare a quando tornare a casa”, no, quei segnali significavano INIZIARE IMMEDIATAMENTE LE PROCEDURE DI ESTRAZIONE, QUESTA NON E’ UN’ESERCITAZIONE, RIPETO, QUESTA NON E’ UN’ESERCITAZIONE.
Significava dover fare come Cenerentola a mezzanotte: levassi di lì prima possibile, rientrare in ambiente sicuro prima che carrozza diventasse zucca, i cavalli topolini, e il figliolo un bambino mannaro.
Una caratteristica di questo tipo di crisi, che finiscono di solito con un meltdown, è avere pochi segni premonitori visibili, insomma. E questo per vari motivi. Intanto, perché spesso le persone autistiche hanno una mimica faciale, una comunicazione non verbale non molto espressiva, diciamo. Quindi anche se sono a disagio la loro espressione potrebbe non rifletterlo. Un altro motivo è che molto spesso, per una serie di fraintendimenti e di quelle buone intenzioni che lastricano la via per l’inferno, ai bambini autistici viene passata l’idea (inconsapevolmente) che non serve manifestare disagio… tanto non verrà preso sul serio. Quindi loro resistono quanto possono e poi quando non ce la fanno più saltano gli step dell’espressione educata di disagio e passano direttamente a Chernobyl. Questo è particolarmente vero al di fuori della famiglia, di solito, per esempio a scuola dove non conoscono bene i polletti e spesso la voglia di tenere il più possibile un bambino in classe sottovalutando i segnali e il problema del sovraccarico sensoriale produce crisi prevenibili. Invece, siccome i bambini autistici hanno già un atteggiamento poco comunicativo, bisogna incoraggiarli a manifestare il disagio e la necessità di aiuto. Se fosse per loro difficilmente lo farebbero, è un aspetto della comunicazione che va coltivato nell’autismo. E anche per aiutare gli sbigottiti docenti che ti chiamano perché il creaturo sta dando in escandescenze e non riescono a spiegarsi cosa sia successo, secondo loro è successo completamente a stucco...
Infine, moltissimi autistici hanno loro stessi, a causa della loro alessitimìa ma anche per via della loro particolare sensorialità, una difficoltà a capire per primi che si stanno sottoponendo ad uno stress eccessivo e che stanno al limite. Possono essere in iperfocus e quindi non avvertire coscientemente la stanchezza, la fame, la sete etc… ma il loro corpo ne risente e quindi anche il loro stato mentale. Possono non riuscire a ricondurre il disagio che avvertono confusamente agli stimoli eccessivi attorno a loro, quindi anche loro come Cenerentola non si rendono conto che l’orologio sta correndo verso la mezzanotte. Possono anche volersi adattare all’ambiente circostante perché tutti sembrano riuscire a farlo, e quindi si forzano a resistere. A maggior ragione quando sono piccoli e quindi anche meno consapevoli.
Qualunque sia il motivo, vi ritrovate con un ragazzino in crisi per le mani, e ormai c’è poco da fare, l’unica è andarsene in un posto tranquillo e aspettare che il peggio passi. Ma la prossima volta? Oltretutto, succede che in un certo senso il cervello impara a reagire in un certo modo nelle situazioni simili, e quindi le crisi sembrano in certi periodi intensificarsi e riprodursi con più frequenza. Alla fine succede che avete paura di uscire, di andare in luoghi affollati o a eventi sociali, perché temete di ritrovarvi con un meltdown da gestire…
Le cose da fare ho capito che sono a monte, per prevenire la crisi. E non sono particolarmente complicate o misteriose, però hanno richiesto disponibilità, spirito di adattamento e un po’ di sano sticazzi. La prima cosa è stata osservare cosa succedeva, cosa mandava in sovraccarico il nostro bambino mannaro, e con quali tempi. Cioè: bisogna avere un’idea di quanto tempo si può resistere in una determinata circostanza/situazione. E partire da lì. L’Asperboy resiste due ore in centro? Ok, noi stiamo in centro un’ora e mezzo. O facciamo una bella pausa tranquilla dopo un’ora, e poi vediamo se dopo si resiste di più. Non arriviamo al limite, non è una buona mossa, credetemi. Ci fermiamo un po’ prima. Eh ma io volevo andare a vedere ancora una cosa laggiù, una vetrina sola… No. Non è la morte di nessuno se rinunciate all’ennesima vetrina, per dire, tanto la vetrina sarà lì anche domani e dopodomani. Potrebbe essere il meltdown di qualcuno se insistete. Ricordatevi Cenerentola col culo per terra tra stracci e topini.
Poi dovete capire se in effetti ci sono dei sottili segni di preallarme che magari sfuggono ai più ma con un po’ di occhio allenato potete riconoscere. E di nuovo, anche lì, se vedete quei segni non barate con voi stessi e non tentate la sorte: levateve da lì, spostatevi in un posto tranquillo. Non importa se sembra strano agli altri, potete spiegare perché oppure no, fate voi, ma sarà sempre molto meno strano di un meltdown in pubblico. E potrete gestire la situazione con più calma e meno interferenze.
Per un certo periodo poi, forse per anni, bisognerà pazientemente supplire alle scarse capacità di autogestione del pargolo, e quindi ricordarsi e ricordargli che deve bere e mangiare a intervalli regolari, o la glicemia si abbassa e lui anche solo per quello diventa Wolverine con la luna storta.
Infine, bisogna utilizzare senza scrupoli i supporti che possono aiutarci a gestire il sovraccarico: cuffie per proteggere dal rumore, vestiti più comodi possibile se sapete che c’è una forte ipersensibilità tattile, occhiali per filtrare la luce, gadget da stimming per aiutarsi a restare in equilibrio. Se pare strano sticazzi, la gggente là fuori deve abituarsi a vedere persone con cuffie in testa e vestiti comodi e pure stimming toys, per certuni magari è uno sforzo ciclopico accettare che esistano esseri umani diversi da loro, ma ce la possono fare…
Tutto questo non significa restare condizionati a vita dai tempi e modi di mio figlio, ma intanto iniziare a rispettarli, perché l’adulta sono io, io l’ho voluto mettere al mondo e sono responsabile del suo benessere, non il contrario.
E poi nel rispetto c’è spazio per la crescita, sua e mia, e per l’allargamento e il superamento dei limiti. Quando avete avuto un meltdown in realtà non avete abituato nessuno a tollerare niente, anzi, avete ristretto ulteriormente la vostra finestra di tempo e spazio. Sì lo so, troverete un sacco di soloni che vi dicono “ehhh ma te non devi correre via appena lui ti dice che vuole andare a casa, così non si abitua mai!”. No no, quello è proprio il momento di andare via, guardate che al sovraccarico sensoriale non ci si abitua, se non in modo limitatissimo e comunque con conto da pagare dopo. E il meltdown alla fin fine è un trauma per tutti, non ci sono aspetti positivi comunque la giriate, e crea evitamento delle situazioni, da parte di tutti. Non crea abilità, semmai il contrario. Si rischia di fossilizzarsi su una modalità impropria di reazione alla situazione, cioè il cervello imparerà e replicherà quel tipo di reazione: il meltdown. Mantenere la situazione entro limiti tollerabili anzi proprio comodi crea le condizioni favorevoli per l’apprendimento da parte del cervello (di chiunque) di nuove abilità e possibilità. Quindi aiuterà un ragazzino autistico a scoprire strategie personalizzate per adattarsi meglio agli ambienti e alle situazioni. Senza l’incubo, per voi e lui, della mezzanotte.
Questa mattina ho accompagnato Piero all’università, scendendo dalla macchina ho visto i pantaloni: una vecchia tuta con il sedere tutto slambricciato, sembrava essersela fatta addosso. Ma non per la moda, a lui non frega niente. Deve stare comodo in aula con 140 studenti. Passo a vedere un negozio al centro commerciale (che difficile), trovo belle cose. Ma poi penso a lui, nel camerino con le cose da provare… e scappo anch’io, prima di vomitare… vestirlo, difficile come quando aveva due anni!
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Oh come ti capisco. Qui una volta trovato, a furia di prove, un modello di pantaloni che va bene, ne ho fatto incetta. L’Asperboy ha qualcosa come 14 paia di pantaloni tutti uguali… Ogni volta che bisogna entrare in un grande magazzino per provare qualcosa sudo freddo.
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