Anatomia di un meltdown

hamsterfire

I meltdown non sono tutti uguali, come gli autistici non sono tutti uguali. Le differenze nei meltdown possono dipendere dalla persona, dal suo stato di salute fisica e mentale, dal suo livello di stanchezza, da fattori esterni peggiorativi come un forte sovraccarico, e anche dalla causa del meltdown stesso. Ci sono meltdown che sono dovuti quasi esclusivamente ad un sovraccarico sensoriale, che si accumula e poi basta una scintilla per mandare tutto a fuoco. Meltdown che sono il frutto di forti stress emotivi. E altri meltdown in cui il meccanismo è diverso, cognitivo. Un meltdown di questo tipo si compone sostanzialmente di due elementi: un assurdo cognitivo creato da un cambiamento non previsto/accettato dalla persona, e un sacco di energia, ed è come un incendio nel parco di Yellowstone, a un certo punto hai la sensazione che viva di vita propria, si crea il proprio sistema di venti, e anche se intorno hai bonificato il più possibile, tolto tutti gli elementi di disturbo sensoriale e cognitivo, quello ormai è partito e va avanti. Va avanti perché la persona in quel momento è alle prese con un assurdo cognitivo, è bloccata lì, con il cervello che va come un criceto impazzito sulla ruota senza mai arrivare da nessuna parte. E’ come sbattere la testa sempre contro la stessa porta che non si apre, è qualcosa che ti fa malissimo ma al tempo stesso non puoi mollare.
A volte la tentazione da fuori è di dire “ok, non riesco ad aiutarti, tanto a un certo punto a furia di gridare e agitarti ti stancherai e crollerai, si tratta di aspettare”.

Ora, questo è un punto importante. Ci sono meltdown che non si esauriscono, che vanno avanti in qualche modo anche quando le energie sono allo stremo. Sono meltdown che sono proprio come incendi boschivi, che sembrano scemare e quasi spegnersi ma poi riprendono l’aire. Non potete, non possiamo contare sul fatto che a un certo punto la persona crolli per la stanchezza e il melt si esaurisca come un fuoco che ha finito la legna… perché la legna di un meltdown così non sono le energie fisiche, è l’assurdo cognitivo e finché quello persiste sotto la cenere non ne siete fuori. In questo caso, è la routine/programma che è stato modificato o interrotto. Se non si sblocca quella, se non si trova un percorso mentale alternativo accettato la persona non ne esce. Il rischio è di andare avanti veramente ore con alternarsi di fasi di quasi calma e nuove fasi di meltdown violento, e ogni nuova fase è traumatica e faticosa.
E’ questo uno dei motivi per  cui è importante coltivare con gentilezza la scarsa flessibilità tipica dei bambini autistici, e cercare di aumentarla: perché più sono flessibili di fronte a imprevisti e cambi di programma, meno avranno meltdown da interruzione di routine mentali, più riusciranno a uscirne in breve tempo. Il lavoro, come ho già avuto modo di dire, è in buona misura a monte, di prevenzione. Però non tutti i meltdown si riescono a prevenire ed evitare, quindi bisogna anche imparare a riconoscerli e gestirli.

Facciamo un esempio pratico di meltdown dovuto a una rigidità cognitiva: nella mia mente ho programmato di fare un lavoro al computer, che dovrò consegnare in una certa data. Lavoro diligentemente, anzi vado proprio in iperfocus e nella mia testa si è composto un programma dettagliato di come dovranno svolgersi le cose, con tutte le tappe per completare il lavoro. Mi piace il lavoro, ci impegno molte energie, sarò contenta di consegnarlo e sicuramente verrà apprezzato, mi pregusto già il momento. Poi la malasorte ci mette lo zampino e il mio computer crasha distruggendo il lavoro proprio alla vigilia della consegna. Se non si riesce a recuperare il lavoro com’era, parte un meltdown ginormico. Ora, si fa presto a dire “si fa un cambio di programma, troviamo una soluzione, magari si rifà anche meglio”, in realtà quel percorso che io avevo disegnato nella mia testa adesso arriva al punto dove doveva esserci un passaggio e invece c’è un ponte crollato, una strada sbarrata, non si passa più ma io non voglio altre soluzioni, altre strade, io voglio, anzi io ormai devo passare di lì. Perché il programma nella mia testa passava da lì, era quello, non un altro. Se mi mettessi a rifare il lavoro non verrebbe comunque uguale, perché la situazione è cambiata. E io quel programma che mi ero fatta nella mia testa a questo punto lo odio, perché mi sta facendo stare malissimo, ma non posso uscirne. Il problema è questo: non riuscire ad uscire da una routine programmata e conosciuta. Non riuscire ad accettare che la realtà è ora radicalmente diversa per un singolo evento che cambia il corso delle cose. L’assurdo cognitivo ora è questo: idea e realtà ora non collimano più, e non collimeranno mai più.

Vorrei che passasse questo concetto: a voi da fuori sembra che uno si fissi in modo testardo e volontario su qualcosa di impossibile, ma la persona se potesse uscire da quella routine mentale che si era costruita e ora la sta facendo impazzire sarebbe la prima a farlo. Non fa apposta a fissarcisi. Un autistico dentro un meltdown dovuto alla rigidità cognitiva è prigioniero della sua mente, e non si diverte affatto. Sta male. E no, non serve dirgli “dai ragiona, stai calmo” e appelli simili, non è così che funziona la mente autistica. L’unica cosa di cui ha bisogno è uscire dall’impasse mentale di questo programma interrotto che continua a girare e nella sua testa ha scatenato tutti gli allarmi possibili. Insomma, la diagnosi mica ce la danno con il gratta&vinci, a caso, ce la danno per queste caratteristiche di funzionamento. Se riuscissimo a uscirne in scioltezza non saremmo autistici, e non staremmo qui a parlarne.

Per la mia esperienza, nella fase più alta del meltdown la persona semplicemente non capisce quasi niente di quel che le dite, fraintende tutto, non è lucida, inutile cercare di farla riflettere sull’impasse, anzi si rischia di peggiorare le cose tenendo il criceto a girare nella ruota. Lì sì, si può solo sgombrare il campo da oggetti taglienti e pericoli vari, togliere qualunque stimolo sensoriale disturbante e assistere la persona nei modi più opportuni per lei. C’è chi ha bisogno di essere lasciato stare con molto spazio attorno, chi ha necessità di contenimento fisico, questo dipende dal singolo e non si può generalizzare. Di sicuro, aiuta mantenere un atteggiamento non giudicante, non rabbioso, il più possibile empatico e positivo. Quella persona non lo fa apposta, e ne uscirete. Nel momento in cui il meltdown sembra stia diminuendo di intensità, il criceto rallenta un po’, può essere utile cercare di uscire dall’impasse cognitivo. E’ in quel momento che uscire dalla situazione, dallo schema del momento, è vitale. A volte è l’intervento di una persona esterna ad aiutare, perché la persona esterna che sa come approcciarsi è una novità che distoglie e quindi può essere benvenuta,  un qualcosa di interessante che cambia la configurazione della realtà, e in una realtà un po’ diversa può essere più facile sganciarsi dal pensiero ossessivo di quello che doveva andare in un certo modo nella realtà di prima. Anche spostarsi in un altro luogo può servire, uscire, come se cambiando il panorama anche la presa interiore si allentasse. A volte è utile un argomento gradito che devia il pensiero su altri binari, o se la persona prende coscienza che non è una sconosciuta enorme catastrofe, ma solo un intoppo in una routine che può essere rielaborata in altri modi…  a volte aiuta anche mangiare qualcosa, perché il meltdown consuma molte energie, e riportare la glicemia su aiuta il cervello a funzionare meglio.

Non ve la voglio vendere come una cosa facile, gestire un meltdown, non lo è affatto, sia chiaro, e non esistono formule magiche o ricette buone per tutti… però alla fine in qualche modo ne usciamo sempre, e sempre un po’ meno peggio. E il bagaglio di comprensione del fenomeno, delle strategie, aumenta.
Avremmo preferito restare nella totale ignoranza, forse, ma tanto siamo in ballo quindi almeno impariamo a ballare…

2 pensieri riguardo “Anatomia di un meltdown

  1. Imparare a ballare è fondamentale. La gestione dei cambiamenti repentini, degli imprevisti, del cambio di rotta per cause di forza maggiore sono sempre state fonte di ENORME disagio per me, ma nel tempo ho imparato a gestirmi abbastanza bene; io sono una di quelle persone che ha l’assoluta necessità di spazi aperti, ampi, possibilmente privi di alberi troppo frondosi, di aria, di solitudine e di assoluto silenzio. In una situazione come questa so che posso “rientrare”; diversamente mi risulta impossibile “ricalibrarmi”. E oggi, sapere qual’è la soluzione per me, mi rassicura. L’ho scoperto da tempo, ma solo da poco conosco i veri motivi, ovvero ciò che sta alla base di tutto questo. Ho imparato a ballare qualche passo da sola e a suo tempo, diciamo, ma ho un bel po’ di lavoro da fare, ancora.

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