ABA come lava

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L’ABA, o meglio, qualunque critica mossa all’ABA, costituisce di per sé un argomento capace di scatenare polemiche dure a morire. Ne sono perfettamente consapevole mentre scrivo queste osservazioni.

Sono anche consapevole che ci sono persone che odiano l’ABA senza riserve e la considerano una forma di abuso, soprattutto nel mondo anglosassone e nell’ambiente degli autistici ad alto funzionamento che si occupano di self-advocacy, e persone che considerano l’ABA una scienza utilissima e sacrosanta, sola capace di aiutare le famiglie dei ragazzi autistici. E spesso si scatenano appunto discussioni e polemiche infinite e tra punti di vista ed anche esperienze di vita che sembrano inconciliabili. Non mi sento di collocarmi in nessuno dei due estremi, ma visto che ABA è ubiqua nel mondo dell’autismo, che alla fin fine è anche il mio, ho voluto capire e farmi un’opinione.

Mi sono sentita spesso dire che non si può capire senza conoscere, e le critiche per sentito dire non hanno valore.
Verissimo. Quindi ho investito una certa quantità di tempo e denaro per avere la possibilità di poter dire la mia con cognizione di causa. Mi sono fatta il famoso corso di 40 ore, mi sono presa il famoso manuale, mi sono iscritta anche ad un Master in cui largo spazio è stato dato a protocolli che applicano, in sostanza, l’ABA. Sì, quindi, direi che so cos’è l’ABA.

Ed oggi sono qui a dirvi che no, non mi ha convinto affatto. Ma non l’ABA in sé, che di per sé è un metodo che funziona per l’apprendimento in condizioni di disabilità cognitiva ed avrebbe il suo campo di applicazione (moooolto più ristretto, secondo me, di quello che al momento si attribuisce, e questo è un altro discorso). E’ tutta la cornice in cui è inserito e la modalità con cui viene applicato, che a me non piace affatto.

Prima di tutto, lo strumento valutativo largamente utilizzato nell’ABA, il famoso VB-MAPP, è dichiaratamente basato sullo sviluppo tipico. Cioè: viene usato uno strumento studiato e tarato sullo sviluppo del bambino neurotipico per valutare dei bambini che, per definizione, non sono neurotipici. Sono neurodivergenti, o atipici. Se voi misurate il famoso pesce di Einstein sulla capacità di arrampicarsi sugli alberi, è chiaro che la situazione vi sembrerà anche più problematica di quel che è. Il passo successivo, una volta ottenuta questa griglia di valutazione ovviamente piena di bei buchi, perché si è fatto il raffronto con un modello tipico di sviluppo, è cercare di riempire quei buchi in modo da rendere quella persona più vicina possibile al modello tipico. E’ quello che i critici dell’ABA chiamano “normalizzazione”, e direi che non hanno tutti i torti eh.
Ora, io non riesco a capire fino in fondo il razionale di questo tipo di decisione. Stiamo parlando di persone con uno sviluppo atipico. Non neurotipici con deficit cognitivi, quindi con una traiettoria di sviluppo neurotipico messa in difficoltà dalla disabilità cognitiva, stiamo parlando di persone atipiche, quindi con una traiettoria di sviluppo che è in partenza atipica, diversa. Ma cerchiamo di riportarli ad una traiettoria di sviluppo più tipica possibile. Non tentiamo nemmeno di capire quali siano le traiettorie di uno sviluppo atipico ottimale, no, il modello di riferimento è lo sviluppo tipico e le sue traiettorie, e a quello pare che bisogna tendere per forza. Prendiamo il pesce e cerchiamo di fargli utilizzare il suo sistema motorio per il movimento di arrampicata, invece che per il nuoto insomma. Tradotto con un esempio pratico e molto comune: viene posta una quantità di enfasi ed attenzione per me eccessiva sulla questione del contatto oculare. Ora, i neurotipici so’ fissati con questa storia del contatto oculare. Per loro è molto importante, a quanto pare. Io posso dirvi che per molti autistici il contatto oculare è una fatica in più, e che richiederlo in modo eccessivo può solo diminuire la performance in altri campi. Di più: non è così tanto necessario *per noi*. Possiamo esplorare l’ambiente attorno a noi anche  con l’udito, e se non ti guardo non significa che non ti sto prestando attenzione, magari è l’opposto, ti sto ascoltando anche con più attenzione perché non sono impegnata anche a guardarti. Quando ero a scuola, da ragazzina, restavo immobile e ferma al mio posto anche per lunghi periodi, senza manco girare la testa a destra o a sinistra se qualcuno entrava in aula. Se necessario guardavo con la coda dell’occhio, oppure nemmeno quello, percepivo l’oggetto o la persona che era comunque all’interno del campo visivo allargato e mi bastava quella come informazione, oppure utilizzavo l’udito. Sapevo cosa accadeva attorno a me, non ero “nel mio mondo”, ero lì attenta ma a modo mio, facendo economia di movimenti. E senza necessariamente contatto oculare. Perché la mia esplorazione e consapevolezza dello spazio attorno non passava necessariamente da lì, ma c’era eccome.

Oltre a questo, la cosa che, lo devo dire chiaramente, mi sconcerta nel campo dell’ABA è stato accorgermi che gli operatori, di qualunque livello, mostrano una discreta ignoranza nei confronti delle specificità cognitive e sensoriali degli autistici. Di più, la sensazione è che più che ignoranza sia disinteresse. L’ABA viene ritenuto applicabile così com’è a chiunque, di qualunque assetto neuropsicologico e cognitivo, senza necessità di adattamenti o di capire l’assetto funzionale di chi hai davanti. Così potete vedere operatori ABA che, oltre a insistere con il discorso del contatto oculare, parlano con toni di voce squillanti ed esageratamente enfatici (che, vi informo, possono essere veramente fastidiosi per un autistico a causa della sua empatia emotiva, o percepiti come francamente falsi) anche mentre il bambino autistico di turno accenna a tapparsi le orecchie, gli fanno il solletico o lo toccano sulla testa, lavorano in ambienti rumorosi e confusionari. Perché, mi dicono “si devono abituare”. E non è che i bambini non mostrino segni di non gradire, c’è chi piange per tutto il tempo, c’è chi va visibilmente in shutdown e deve essere “promptato” pesantemente perché è nel pallone, chi si lamenta, chi si oppone (opposizioni di breve durata ovviamente, perché ogni “comportamento problema”, che magari non è altro che la manifestazione di un legittimo “levami ste mani di dosso, non mi stare così addosso, piantala di urlarmi nelle orecchie, aspetta un attimo e dammi il tempo di capire cosa devo fare”, viene prontamente controllato nella manifestazione quanto ignorato nelle cause). Guardate che questo secondo me non è manco ABA, è proprio ignoranza di come funziona un autistico, e disinteresse per il rispetto che gli è dovuto, in ogni caso. Qui la differenza fondamentale tra me ed i miei figli ed un ragazzino autistico a basso funzionamento non è nel fatto che a noi queste cose danno fastidio o sono dolorose e magari per lui no, sta nel fatto che io ed i miei figli abbiamo un senso di sé ed una capacità comunicativa che ci permettono di esprimere dissenso e sottrarci alle situazioni sgradevoli e stressanti. E ci viene riconosciuto questo diritto, e nel caso non ci fosse riconosciuto lottiamo esplicitamente per averlo: fate ghirighiri a mio figlio, quello ve mena (con la mia benedizione) e protesta pure. Ad un ragazzino a basso funzionamento, o meglio ad un disabile cognitivo viene riconosciuto molto meno il diritto ad autodeterminarsi, anche solo in parte. E’ una questione culturale generale, non solo di ABA. Si fa per il suo bene, si dice. Va bene, si fa per il suo bene, ma ci deve essere comunque, in ogni caso, una riflessione etica a monte che determina dove stanno comunque i paletti oltre i quali, disabilità o no, non si dovrebbe andare. Io questa riflessione etica nell’ambiente ABA non la vedo molto, vi dirò francamente. E invece me lo aspettavo, quando ho fatto il corso ABA, che se ne parlasse al modulo “etica”, proprio per le critiche di cui ABA viene spesso fatta bersaglio. Invece ho scoperto con sorpresa che il modulo del corso sull’etica nell’ABA riguardava in sostanza tutti i modi in cui puoi o non puoi relazionarti con i genitori del paziente, con i supervisori, con le istituzioni che controllano la diffusione dell’ABA nel mondo, in sostanza con chiunque tranne il paziente in oggetto. Per me questo non è “etica” del trattamento, scusate, e lo dico da professionista del settore riabilitativo. Manca il pezzo fondamentale, la persona centrale a tutto, il paziente.

Quindi in sostanza, visto che a quanto pare al momento l’ABA sembra essere inamovibile e insostituibile nel trattamento dell’autismo a medio e basso funzionamento, ed ha effettivamente una sua efficacia nell’insegnamento di abilità, parole etc. per me la questione non è ABA sì, ABA no. La questione è: siamo proprio sicuri che quella che si applica sui bambini autistici oggi sia la migliore ABA possibile?
E la risposta per me è: NO. Ci sono davvero ampi margini di miglioramento.

3 pensieri riguardo “ABA come lava

  1. Non sono un esperto del settore ma il tuo discorso mi ricordo il tipico approccio della Psicologia (che io detesto parecchio e giudico una “non scienza”) nei confronti dei pazienti, e più in generale la supponenza con cui l’essere umano (che si crede erudito) applica in maniera standard dei principi che si danno per scontati debbano essere insindacabilmente giusti. Ovvero mi ricorda tutti quei contesti in cui non si vuol tenere conto del caso specifico, perché esiste un protocollo che si applica ciecamente, per pigrizia, ignoranza, viltà, ipocrisia e tanti altri bei difettucci dell’essere umano che chissà perché tende sempre a sentirsi Dio.
    Non esistono due esseri umani uguali. Ergo non esistono due pazienti uguali. Ergo non potrà mai esistere uno standard capace di “curarli” o “farli stare meglio” tutti allo stesso modo. Tanto più se si parte da assiomi totalmente fallati!

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