
…e nemmeno due.
Ma andiamo con ordine. Abbiamo già visto che una percentuale significativa di persone nello spettro è anche transgender, o gender fluid, o agender o un’altra delle possibili identità di genere. Di converso, sappiamo che una consistente fetta di persone transgender risponde anche ai criteri per una diagnosi di autismo.
Ora, il fatto è che quando avete una persona neurodivergente, diverge in più di un senso. Quindi, una persona neurodiversa tenderà ad avere una versione, una interpretazione, insomma… ad avere la stessa cosa del tipico medio in modo diverso. Tanto nella patologia quanto nella salute.
Ad esempio, il disturbo ossessivo compulsivo è presente sia nelle persone neurotipiche che in quelle neurodiverse… ma poi assume tendenzialmente caratteristiche diverse, come manifestazione, in autistici e neurotipici.
Quando parliamo di identità di genere, possiamo notare che l’identità di genere delle persone neurodiverse tende a non essere binaria. Cioè a non essere definibile in termine di maschio o femmina. Lo so che me menate se vi dico che pure questo è uno spettro, ma… sì, l’identità di genere è uno spettro.
Se qualcuno dice la parola “trans”, ammettiamolo, al 90% di noi appare in testa lo stereotipo della ragazza transgender che fa di tutto per avere aspetto ed atteggiamento iper-femminili. Ma in realtà il mondo del transgender è molto più complesso e variegato di così. Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.
Nella mia esperienza personale, tra le persone autistiche sono soprattutto le ragazzine e le donne (intese come persone tirate su come femmine almeno fino a un certo punto) che tendono ad avere una identità di genere di tipo gender fluid e non binaria, o transgender ma non binaria. Sono ragazzin* che non si riconoscono in quello che la società presenta loro come “femmina” o “donna”. Ma in fondo nemmeno in quello che viene presentato come “maschio” o “uomo”.
Per iniziare a capire questo, dovremmo prima renderci conto della mole di condizionamenti e input che la società tutta rovescia addosso a chi nasce femmina per farne una ragazza e poi una donna aderente il più possibile al modello, all’idea di cosa una donna può o deve essere/fare.
Ora, cosa accade se la femmina in questione è autistica? Accade che le persone autistiche hanno fin dall’esordio sulla scena del mondo una sorta di carenza di recettori per il condizionamento sociale. Avete presente il concetto di recettori ACE2 sulle cellule, che fungono da “aggancio” per la proteina spike del coronavirus, che da lì riesce ad entrare nella cellula? Ormai siamo tutti virologi di prim’ordine in Italia, quindi posso usare quest’immagine. Ecco, gli autistici tendono a non avere molti recettori per il virus del condizionamento e dei messaggi sociali in genere. Quindi ne sono geneticamente quasi immuni. Spesso non è che se ne fregano dei condizionamenti sociali, è che manco si accorgono che esistono, gli scivolano addosso.
Quindi a un certo punto accade quello che è accaduto per esempio all’Aspiebaby: mess* di fronte, attraverso la frequentazione di scuole e luoghi dove si ritrovava con i coetanei, ai due modelli “maschietto” e “femminuccia” ci ha pensato un po’ sù e poi ha detto: io, non sono nessuno dei due.
(ovvio, non è l’unico meccanismo in gioco, c’è anche il fattore genetico ad esempio)
C’è poi anche il fatto che le persone autistiche hanno una sensorialità particolare, anche molto spiccata, e all’arrivo della pubertà possono non apprezzare i cambiamenti che il loro corpo gli impone.
Io ho allevato i miei figli cercando di insegnare loro che tutto ha un pro e un contro, e bisogna guardare le cose in modo positivo se possibile. Però quando l’Aspiebaby è venut* da me e mi ha chiesto: mamma, qual è il lato positivo delle mestruazioni?… mi sono ritrovata per la prima volta in vita mia a non sapere che dirgli. Insomma, ci sono anche lati dell’essere femmina che te lo fanno vivere proprio male, questo essere femmina, a livello sensoriale e fisico, che se permettete è un lato molto importante. E per le persone autistiche lo è ancora di più, anzi direi che condiziona tutto il loro modo di essere nel mondo.
A questo punto per fortuna viviamo nel 2021 (almeno per la maggior parte della gente) e quindi è possibile rivolgersi a strutture che si occupano proprio dell’identità di genere e iniziare un percorso di chiarimento e se necessario poi di transizione.
Il primo ostacolo da affrontare è quello di chi ancora ritiene che l’identità di genere non conforme sia una specie di “complicazione” dell’autismo, quindi che non sia reale ma una sorta di fissazione autistica, un singolare interesse assorbente. Con conseguente svalutazione dell’identità della persona, e rifiuto di offrire l’assistenza a cui si ha diritto. C’è un briciolo di vero, in questa obiezione, ma lo vedremo più avanti.
Superato il primo scoglio, trovando un centro aggiornato in materia, ci vuole un po’ di discernimento, perché abbiamo detto che le persone autistiche di solito non ricadono nella suddivisione standard uomo/donna, ma hanno più tendenza a un’identità di genere non binaria, magari anche non precisamente definita, fluida insomma. Quindi l’offerta di assistenza che serve loro non è quella che vede le cose solo in termini di uomo/donna. Il rischio concreto qual è? Il rischio è di offrire solo percorsi di mascolinizzazione e femminilizzazione completi, o così o cosà, diciamo, a persone che in realtà non si identificano né come ragazze né come ragazzi, anzi non concepiscono proprio questo tipo di categorizzazione binaria. Per fortuna, sempre più centri si stanno attrezzando e aggiornando per poter offrire percorsi adeguati, ad esempio con le terapie ormonali in microdosing, che permettano alla persona di modulare meglio il grado di cambiamento del proprio corpo, più vicino a come si identifica davvero interiormente.
L’altro rischio, a cui accennavo prima quando parlavo di briciolo di vero, è che stiamo parlando di persone autistiche. Che quindi possono avere la caratteristica rigidità autistica, quel focalizzarsi su qualcosa e non vedere nient’altro, e volerlo realizzare anche qui e ora.
Sono persone con un’identità non conforme, su questo per me non ci piove, ma è possibile che decidano che il loro scopo, la soluzione di tutti i problemi, sia una transizione di genere. Mettendocisi su con tenacia e impuntatura tutta autistica. E come dicevamo prima, per una buona parte di loro in realtà ci vuole una transizione più graduale, ancora più monitorata e consapevole, per capire quando si è arrivati al “loro” punto sullo spettro dell’identità di genere, prima di fare cambiamenti che poi non son reversibili.
Altro punto importante: sono una sostenitrice sfegatata del fatto che permettere a un* ragazzin* di iniziare a transizionare socialmente, almeno come nomi e pronomi, sia cosa buona e giusta, che aiuta il loro benessere psicologico e contribuisce a prevenire molti problemi di depressione, autolesionismo o peggio… ma so che comunque la transizione, sociale o fisica che sia, non risolve affatto tutti i loro problemi. E mi riferisco soprattutto ai problemi di socializzazione che fanno parte del pacchetto autismo anche in versione basic, non del pacchetto transgender. Su quei problemi lì ci lavori a parte, e questo i ragazzin* lo devono avere ben chiaro, prima di iniziare un percorso.
Infine, last but not least, c’è il problema che nella nostra società, e forse in qualunque società, si amano le cose chiare e definite, tipo tutti quelli che si sentono donne a destra e tutti quelli che si sentono uomini a manca. E invece c’è sempre qualcuno che rimane lì nel mezzo, e con quelli la società ha più difficoltà a capire. Paradossalmente, trovi più gente disposta a capire almeno a livello razionale una ragazza transgender, che una persona gender fluid. Si fanno una ragione del fatto che una persona voglia “passare da un genere all’altro”, perché comunque questo non intacca lo schema binario uomo/donna, molto meno che una persona non pensi di appartenere a nessun genere, o che si senta in un punto intermedio e non precisamente definito dello spettro dell’identità di genere. Almeno in inglese poi hanno dei pronomi, they/them, che evidenziano meglio la possibilità di non riconoscersi né come she né come he, in italiano c’è molto meno spazio di manovra al momento. E’ tanto un portato della mentalità che qualcosa che contribuisce a mantenerla, credo.
Questa difficoltà ad essere compresi e rispettati nel proprio essere è evidente quando ad esempio l’Asperboy si veste. Lui ha dei gusti precisi e molto artistici, diciamo. E non è uno di quei ragazzi transgender che cercano appunto di sembrare più mascolini possibile, stile Brando in Fronte del porto. Se potesse, si vestirebbe in maniera anche più “ampia” di quel che fa, spazierebbe di più. Gli piace il rosa, gli piacciono gli stampati, i pastello… Ma si limita, perché poi sa che le persone vedendolo non lo considererebbero più una persona transgender ma lo scambierebbero per una ragazza. Ora si è fatto i buchi alle orecchie, e poi mi ha detto “erano anni che volevo farmeli, ma poi sapevo che mi avrebbero preso per una ragazza. Ora sono contento di essermeli fatti, finalmente”. E io sono contenta per lui, anche se so che la vista di quelle due minuscole palline nere ai suoi lobi scatenerà mal riposte speranze nei suoi nonni, e spero solo che lui la prenda con filosofia…
(please note: questo non è un articolo che pretende di esaurire l’argomento, o di mettere paletti precisi. Questo è quel che ho capito io finora sulla base di quello che ho sperimentato, visto, ascoltato, e cosa ne penso qui nel mio angolo con vista sul mondo)
Un pensiero riguardo “Questo genere che non è un genere…”