Ho fatto voto di non infilamme mai più in una polemica di quelle eterne che sostanzialmente non servono a niente, perché poi ognuno resta della sua opinione, che scoppiano periodicamente nel “giro” dell’autismo tra attivisti della self advocacy e genitori di ragazzini autistici. Per cui se ne vedo una chiudo i social e vado a fare altro. Però mi dispiace sapere che continuano ad esserci queste discussioni.
Perché fidatevi, alla fine sono discussioni che fanno più danno che altro, soprattutto danni collaterali, cioè un danno che si espande attorno, avvelena l’ambiente, e colpisce anche chi magari non c’entra niente, non c’era e ha posizioni diverse, ma ormai l’ambiente si sta polarizzando e può capitarti di essere preso per quello che non sei. E’ capitato a persone che si spendono per fare formazione ed aiutare le famiglie di autistici, e poi vengono trattate come se fossero tutt’altro, un nemico, solo perché autistici di liv.1. WTF??
Ora, il problema visto dal mio angolino nasce perché mancano in generale i pre-requisiti per affrontare il discorso. E i prerequisiti sono capire almeno un po’ in cosa consiste l’autismo, proprio a livello medico, clinico, e poi come ragionano i clinici.
Lo so che la self advocacy vuole andare oltre lo sguardo medico sull’autismo, ed è assolutamente legittimo, ma se vuole farlo comunque deve prima capire 1) da dove nasce lo sguardo medico 2) che c’è una fetta di autismo (e di autistici) che ricade per forza in campo di interesse medico, perché il livello di compromissione è tale da richiedere alto livello di supporto. E quello passa quasi solo per il campo medico, almeno attualmente.
E lo so che per molte famiglie la questione dei criteri diagnostici clinici è fondamentale, ma allora bisogna anche capire cos’è un criterio diagnostico e a cosa serve come strumento nelle mani di un clinico, non come clava da brandire in una discussione. Perché non è stato fatto per quello, e sui social tendiamo a dimenticarcelo.
Una parte del problema è che essere autistici significa essere umani (bella scoperta). Sì insomma, come fa notare molto correttamente Barry Prizant, non esiste niente che un autistico faccia… che non fa anche un non autistico. Nominate un comportamento, lo stimming per esempio, e vedrete che anche i neurotipici fanno stimming. Nominate il meltdown, e anche i neurotipici possono avere momenti in cui je parte la brocca con tutto il cucuzzaro. Nominate la rigidità cognitiva e vi presenterò neurotipici duri come le pine. La differenza sta nell’intensità e frequenza dei comportamenti, oltre al fatto che si presentano insieme in un certo assortimento specifico, e impattano sul funzionamento. Questo è fondamentale da tenere sempre in mente. Però in teoria si potrebbe anche spostare questa lancetta che segna “dove comincia l’autismo” su e giù come fa comodo alla propria visione, e in questo modo includere o escludere delle persone. Non è una questione da poco, tra l’altro, significa dare strumenti e tutele o toglierli, a volte a decine di migliaia di persone in una botta sola.
E qui arriva un punto importante, secondo me: i clinici nel tempo modificano i criteri diagnostici per includere le persone che hanno bisogno di supporto, non per gioco. Cioè se si sono allargati i criteri diagnostici per includere persone con un funzionamento autistico che in passato sarebbero stati considerati altro (schizofrenici, schizotipici, depressi etc.) è perché si è ritenuto, e secondo me a ragione, che quelle persone non solo avessero un funzionamento autistico, ma avessero per questo anche delle problematiche tali da richiedere supporto. I medici studiano per aiutare le persone, alla fin fine, non per tracciare confini senza senso. E non per accontentare questa o quella fazione di gente variamente incazzata là fuori.
Questo allargamento ha creato un grosso problema di inclusione, perché la comunità delle famiglie di autistici si è trovata davanti un gran numero di individui con una diagnosi di autismo, che magari prima avevano pure una diagnosi ma non di “autismo” bensì di “spettro autistico” (DSM IV-R), e che non corrispondeva all’idea a cui erano abituati di autismo. Persone con un livello di autonomia maggiore rispetto ai loro figli e figlie. Da lì a dire “ma questi non sono veri autistici” il passo è stato breve.
E arriviamo quindi al problema degli autistici “che non sembrano autistici”, insomma che hanno un funzionamento autistico “senza compromissioni”. Pure su questo temine, senza compromissioni, ci sono equivoci notevoli.
Diciamo subito che senza compromissioni solitamente significa: senza compromissione del cognitivo, cioè cognitivo nella norma, e senza compromissioni del linguaggio. Che sono le due grandi aree dove invece le persone autistiche di livello 2 e 3 (e anche alcune di liv. 1 direi) hanno invece problemi associati. Ma questo non significa senza compromissioni del tutto. Se hai una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, hai delle compromissioni *dal punto di vista della scienza medica* (e neurotipica), per definizione. Compromissioni sul versante della reciprocità sociale, delle condotte ripetitive etc. Criteri A e B insomma. E questo impatta sulla tua vita in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti, criterio D. Ed è così da quando sei piccolo, criterio C.
E’ a questo punto che purtroppo viene messo a punto da alcuni un definitivo, dirimente criterio diagnostico per l’autismo. Un criterio diagnostico che batte tutti gli altri. Il criterio F, quindi, che si riassume in “not like my child”.
In sostanza, capitano queste situazioni: potete pure avere tutti i primi cinque criteri diagnostici positivi, ma se non soddisfate il criterio F, se non siete “come mio figlio”, intendendo il figlio dell’interlocutore di turno, con tutta una serie di compromissioni notevoli, non siete veramente autistici. E quindi non avete diritto a diagnosi e supporto. Criterio F, come fanculo, dove potete andarvene con tutti i vostri problemi insomma. In questi casi puoi provare a spiegarglielo in tutti i modi, comunque restano su quella posizione anche contro i pareri di professionisti esperti e tutte le possibili motivazioni e dissertazioni con tanto di studi scientifici che puoi produrre.
Perché in realtà lo sanno, e io lo so che loro lo sanno, quindi è inutile che glie lo spieghi e rispieghi (ed ecco perché non mi ci metto manco più ormai). Non si impuntano perché non lo sanno, si impuntano perché lo sanno e li fa incazzare da morire ‘sta cosa. Che qualcuno osi essere, e dire di essere autistico, senza essere “like my child”. Vabbe’.
Poi esiste il famoso BAP, o Broader Autistic Phenotype, cioè fenotipo autistico allargato. E’ una definizione creata per quelle situazioni in cui siamo fuori dai criteri per una diagnosi di disturbo come numero dei tratti o come intensità del disturbo, ma comunque ci sono tratti autistici presenti in quella persona. Viene usato per esempio per definire la condizione di molti genitori di autistici, che pur senza essere proprio autistici appunto presentano diversi tratti. Si chiamano tratti sub-diagnostici, non sub-clinici, attenzione. La differenza è questa: clinico significa che si vede, che si presenta, quindi sub-clinico significa che non si vede (ma non significa manco questo “non c’è”, in senso medico), questi invece sono tratti che si vedono, ci sono e si vedono insomma. Sono sub-diagnostici nel senso che non sono sufficienti per determinare la diagnosi. Non significa che non ci sono, e non significa che quindi non hanno potenzialmente nessuna rilevanza o impatto sulla vita. Potrebbero averne, anche se non inquadrati in una diagnosi.
Adesso, se qualcuno ha letto altri post di questo blog, saprà quanto mi stanno sulle palle le diagnosi di comodo, per coprire il fatto che uno sia autistico con qualcosa di più socialmente presentabile. Mi stanno pure sulle palle quelle situazioni in cui si vorrebbe far passare sotto l’etichetta di autismo anche altre cose, come per esempio disturbi di personalità che coesistono con l’autismo ma non sono autismo, e se l’autismo “non si cura!” lo posso accettare, i disturbi di personalità fareste bene a curarveli invece. Quindi, non penso di essere una che cede alla tentazione della “diagnosi di comodo”, né in un senso né nell’altro.
Ora, la mia domanda è: ma voi con che criterio decidete che se una persona con funzionamento autistico o profilo autistico non raggiunge il cut off di compromissione per una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, allora quella persona non ha diritto di sapere e di dire che ha un funzionamento autistico? Di nuovo, come si ragiona in clinica? Si ragiona che se una persona non arriva al cut off per la diagnosi di diabete, ma comunque ha una glicemia alta, non è che tutto bene! non c’hai niente! No, c’hai una situazione che comunque richiede attenzione, probabilmente hai già un’alterata tolleranza al glucosio, anche se non ti posso rilasciare una diagnosi di diabete e quindi non hai accesso a tutta una serie di tutele/presidi. Te lo dice, il clinico, che stai messo così, e cosa devi fare.
In neuropsichiatria infantile, quando vedi un bambino che ha problemi di prerequisiti per la letto-scrittura, e quindi è a rischio di dislessia e co., mica aspetti la seconda elementare per fargli la diagnosi e poi eventuale riabilitazione, mezzi compensativi dispensativi etc, inizi a lavorarci subito se è il caso, o comunque lo tieni sotto controllo, lo rivedi per capire come sta andando. Ai genitori dici che c’è qualcosa.
Io ho una malattia che ha un grading da 1 a 10, a 10 sei allettata, alimentata con sondino di solito e dipendi in tutto e per tutto dagli altri. Io faccio fatica, tanta, e a volte ne parlo anche qui sul blog, ma ho (ancora) un discreto grado di autonomia. Chi mi vede da fuori, quando esco da casa, non pensa che io sia malata. Ma all’interno della comunità dei malati di ME/CFS come me *nessuno* si permette di dirmi che io non c’ho un tubo, sanno benissimo che ho solo un grado diverso di compromissione. E sanno pure quanto sia difficile riuscire a farsi diagnosticare da gente che ha studiato medicina e pure quando hai compromissioni elevatissime, figurati farsi prendere sul serio da gente che non è medico e ti vede che stai ancora in piedi.
Riassumendo: la condizione di “non ci sono tutti i criteri per una diagnosi” non significa affatto “VA TUTTO BENE!”, nel pensiero medico. E dire che una persona ha un livello di compromissione basso non significa che potete mandarla affanculo perché ci sono cose più gravi. Nella medicina fatta bene per fortuna non si ragiona così.
Insomma, se una persona ha una diagnosi di disturbo dello spettro autistico di liv. 1 per quanto mi riguarda – e per quanto riguarda la scienza medica – quella persona è autistica e basta, non c’è manco da discuterne. Stacce.
Ma se vi arriva una persona e dice che ha un funzionamento autistico rilevato da un clinico, e si autodefinisce autistica, e ha dei problemi che a voi sembrano poca roba, potete avere l’idea che ve pare nella vostra testa ma comunque, secondo me, è meglio se trattate quella persona con il rispetto dovuto a un umano come voi. Non avrà le compromissioni che ha un autistico di livello 3, di sicuro, forse manco quelle di un autistico di liv. 1, vai a sapere, ma questo non significa che non c’abbia proprio niente che non funziona nella sua vita, e ci sono ottime probabilità che sia proprio il suo funzionamento autistico a determinarlo, visto che gioca fuori casa, in una società cioè ad ampissima maggioranza neurotipica. A voi non sembrerà un disturbo sufficiente, magari nemmeno al clinico che ha certificato un funzionamento di tipo autistico, ma questo non significa zero problemi vai pure a fanculo. Non siamo qui, come esseri umani, per mandarci reciprocamente affanculo e chissenefrega di te. Teoricamente, ci vorrebbe un po’ più di empatia e solidarietà, da tutti i lati.
E quindi dall’altro lato se siete persone come me, con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico di liv.1, e soprattutto come me siete nella vostra capoccia e nella vostra vita da decenni e *sapete* come funzionate, quindi sapete di essere autistici pure se Tizio e Caio pensano di no perché non c’avete il criterio F, però rendetevi conto che nessuno di noi è misura del tutto, e di alcune cose si può parlare perché le si vive e le si è vissute, e di certe altre si può parlare se si sono osservate e studiate, e di altre ancora meglio ascoltare chi c’è dentro più di voi prima di parlare, che non si finisce mai di imparare. Nemmeno su sé stessi, figuriamoci sugli altri.
In sostanza, a me pare che in simili discussioni tanto attivisti quanto genitori finiscano per perdere di vista lo scopo di una diagnosi ma anche di una relazione clinica, chiamiamola così, dove non si diagnostica un disturbo ma un funzionamento: aiutare. Aiutare persone a capirsi, a funzionare meglio, ad avere se possibile una vita un po’ meglio di quella che è stata prima, perché di solito da uno specialista della salute mentale non ci vai se stai tanto bene. E aiutare le famiglie a capire meglio i propri ragazzi, e come fare ad aiutarli, quali strumenti mettere in campo per costruire le loro autonomie future. Possiamo non perderlo di vista?